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Lo zibaldone di Vincenzo Thoma: l’orrore e il piacere

Facciamo un esperimento. Accendiamo la televisione. Non è improbabile trovarci davanti alla pubblicità di un nuovo tipo di hamburger vegano, cui potrebbe seguire, quasi senza soluzione di continuità, l’immagine di un bimbo esanime e insanguinato tra le braccia della madre che gli consacra un intempestivo e ultimo sguardo. Proviamo a cambiare canale: ora l’invito a partecipare a una lussuosa crociera nei mari del sud America potrebbe ben sfumare in un servizio giornalistico sulle rovine di un ospedale pediatrico bombardato da piloti militari troppo lontani e insensibili per percepire l’orrore delle loro azioni.

Analizziamo tutto questo: uno pseudo-hamburger è giustapposto a un corpo senza vita; un regale transatlantico che solca oceaniche spume precede la visione della carcassa di un tempio consacrato alla salute dei bambini. Come dire, alla.. ‘’malìa’’ del consumismo e del godimento del superfluo si affianca il…‘’Male’’, persino nella sua accezione più ‘’amministrativa’’ e burocratica: tecnocrati e militari alle prese con una banalizzazione dell’atroce, come potrebbe dire Hannah Arendt. E noi lì, spinti ad almanaccare sulla convenienza del prezzo di una bistecca vegetariana o di una settimana ai Caraibi.

Questa è la gracchiante dissonanza di immagini e messaggi a cui ci sottoponiamo quotidianamente, quando ci ritroviamo davanti al sinistro baluginìo di uno schermo. Eppure, continuiamo a farlo, oscillando tra la salivazione per l’appetibilità di un piatto speciale e la maschera atteggiata a ‘’partecipato’’ dolore per una tragedia lontana. Come non pensare a una sorta di effetto catartico nell’assistere alla tragedia di una guerra (per il momento) lontana da noi? Sartre diceva che la morte si può osservare solo nell’Altro. E questo ci riconsegna a una sorta di immunità, di salvezza, di sollievo per non essere noi i protagonisti dell’orrore. 

Uno studioso danese, Mathias Clasen, giurerebbe che assistere all’orrore in una situazione di conforto e di invulnerabilità (come potrebbe essere quella di guardare un film di Stephen King, comodamente seduti su una poltrona) catalizzerebbe e acuirebbe in noi certe capacità di reazione quando si deve far fronte a periodi d’emergenza, come in questi anni è accaduto con la pandemia. Come dire che la sciagura dell’Altro ci (sic!) rinfranca, ci consegna il perverso sollievo di non farvi parte. Diciamocela tutta: di averla scampata. Misteri del sistema nervoso parasimpatico e di un’amigdala rinforzati da una sensazione di paura cui non segue alcuna conseguenza. 

Intanto, le nuove generazioni, eternamente iperconnesse e sempre più sole, guardano al domani con nichilistica incertezza, ciechi davanti al loro telefonino. Sullo schermo, la notizia di un nuovo sfavillìo di rutilanti calzature seguita da una variante di rosso vivo sulla pelle di corpi che parlano un’altra lingua.

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