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Vincere la morte vivendo

Ecco alcune commoventi scene di vita animale. In mezzo all’oceano, un delfino trattiene sulla superficie del mare uno dei suoi cuccioli ormai senza vita, come a volerne, così, scongiurare la morte, sperando un soffio d’aria ravvivi i polmoni del piccolo. Nella savana, il corpo inerte di un elefantino è accarezzato con improbabile e inedita gentilezza dalle zanne e dalle proboscidi dei suoi genitori e dei famigliari, come a tributargli un ultimo saluto. In uno dei tanti mattatoî del mondo, invece, colpisce il terrore negli occhi di un maiale e le sue lancinanti strida prima di subire l’orrore della macellazione. Ebbene, non è arduo riconoscere in questi animali una sorta di presentimento dell’imminenza della morte e il senso della perdita di ciò che è a loro caro e che li spinge a resistere e ad indugiare nel luogo del trapasso. Ma, d’altro canto, possiamo spingerci a ipotizzare che essi abbiano anche una conoscenza del morire? Gli animali “sanno di morire’’? La risposta è molto probabilmente negativa. La morte di un animale giunge del tutto inattesa. Impensata. Il mio cane Chopin non pensa che un giorno dovrà abbandonare per sempre la nostra famiglia. Egli vive semplicemente, mosso da impulsi e istinti. Certo, sente di essere amato. Ma non credo sappia di “morire’’.

Siamo solo noi, esseri umani, a conoscere il “morire’’. Ogni giorno, un po’. Il morire, per noi, non è un evento estremo, ma un fenomeno atteso, temuto, intrecciato ed impercettibilmente connesso non solamente al vivere, ma anche a quella facoltà che Aristotele indicava come ciò che ci contraddistingue dagli altri animali: il linguaggio. Ragioniamo, quindi moriamo, parafrasando Cartesio. Il linguaggio e la ragione ci danno quella coscienza della finitezza della nostra esistenza che manca del tutto all’istintualità animale. L’essere umano, dal momento in cui comincia a parlare, avverte il senso del limite, la percezione di un vivere che non è più meramente biologico, come nello stato fetale e infantile, ma che è legato alla convivenza, al bisogno dell’altro da sé, a una “condividualità’’ che interferisce con l’individualità”. Più di duemila anni fa, i Greci non chiamavano gli uomini “i viventi”, bensì si riferivano ad essi con il termine brotoi, cioè “i mortali’’. La cultura dell’antica Grecia, infatti, conosceva il senso della ciclicità del divenire, dell’alternanza delle stagioni, di un nostro derivare dal Nulla all’Essere, per poi al Nulla riapprodare. E così vivevano intensamente l’istante, il qui-ed-ora che tanto spiritualismo ‘’New Age’’ si affanna a diffondere di questi tempi.

Sono profondamente convinto che vivere appieno la vita significhi avere questa coscienza della nostra finitezza, del nostro impercettibile morire ogni giorno e fare tesoro di ogni nostro istante, disseminando di innumerevoli “ti voglio bene’’ il percorso che facciamo con il prossimo, stringendogli la mano, guardandolo negli occhi e condividendo con esso la grande bellezza del vivere. Allora potremo, insieme a John Donne, far morire la Morte. E pensare di vivere, in vita, l’Eterno.

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