Jean-françois Lisée, già capo del PQ, con il suo articolo “Identité anti-québécoise” (Le Devoir, 24-02-2024 ) ha lanciato una pietra nelle acque stagnanti del nazionalismo quebecchese.
Lisée, già capo del PQ, è un nazionalista. Un nazionalista favorevole alla separazione del Québec. Il nazionalismo, tra i discendenti dei francesi e i loro assimilati, è considerato una virtù. Esso oscilla tra i due poli: l’autonomia e la separazione.
Il partito al potere, CAQ, fu fondato da François Legault, l’attuale primo ministro, con un programma autonomista. Ma il vento cambia e pare che alle prossime elezioni vi sarà un ritorno dei favori popolari verso il PQ, già dato per defunto. A livello federale, il Bloc Québécois, anch’esso separatista, si dimostra resiliente.
Nell’articolo in questione, Lisée denuncia il fenomeno del “rifiuto dell’identità quebecchese” e del disprezzo verso i “Kebs” (Québécois) in diverse scuole di Montréal, pubbliche e private. Inoltre, in queste scuole, nei corridoi gli studenti parlerebbero inglese invece che francese. Vi sarebbe persino il fenomeno di giovani quebecchesi “di ceppo” (“de souche”) che esiterebbero a definirsi tali, a causa appunto di questa avversione anti quebecchese. Lisée, a dire il vero, fa un breve accenno anche al fenomeno contrario: chi non può vantare di discendere dai lombi francesi, ma vorrebbe essere identificato come quebecchese, si sente spesso dire “che non ne ha il diritto”. L’ex capo del PQ conclude l’articolo parlando di “strappo nel tessuto identitario quebecchese”.
A mio avviso, occorrerebbe che Lisée e gli altri intellettuali del Québec approfondissero il complesso tema dell’identità quebecchese. Riandando anche al comportamento tenuto dalla maggioranza della popolazione francofona del Québec nei confronti di noi, immigrati italiani, bersaglio, per lunghi anni, della loro ostilità e talvolta del loro disprezzo.
Oggi, paradossalmente, “l’arroseur est arrosé”. Il francese parlato qui (“senza accento” sentivamo dire in quei tempi) è percepito da molti giovani, immigrati da paesi francofoni e dal Maghreb in particolare, come una lingua assai particolare e dall’accento ridicolo.
Per sommi capi e in ordine sparso, un accenno ad alcuni temi che l’élite quebecchese avrebbe interesse a sviluppare.
-La denatalità attuale, antitetica alla “revanche des berceaux” resa possibile dal ruolo, fortemente pervasivo, svolto dalla Chiesa nel corso di circa due secoli.
-I referendum persi.
-Justin Trudeau e il suo multiculturalismo di Stato che ha minato alla base l’idea di un Paese, il Canada, nato da un patto fondativo fra due popoli. E oggi, chi parla in Québec di patto inserisce a malincuore un terzo popolo: i nativi.
-La triste storia, venuta alla luce, dei collegi residenziali dei figli degli aborigeni, strappati alle loro famiglie, ha invalidato la vulgata dei quebecchesi “trop bons”, eterne vittime dell’altrui malvagità. E ha tolto credito alla Chiesa. Una Chiesa-Stato per il Québec. Mentre ha incrementato i crediti morali fatti valere dagli aborigeni, le cui “nazioni” sono tutte contrarie, senza eccezione, al sovranismo quebecchese.
-È un triste dato di fatto, nel Québec, l’abolizione del passato, con il funerale fatto alla Chiesa – “la Grande Noirceur” – che pur ha avuto molti meriti nell’affermazione dell’identità francese dei “Canadiens”.
Mi accorgo di aver già raggiunto il limite dello spazio che mi è permesso. L’enumerazione dei temi, che io considero meritevoli di approfondimento da parte dell’élite quebecchese, continuerà sul prossimo numero del Cittadino.