Il documentario “La bataille de St-Léonard” di Félix Rose ci riporta agli anni 1968-69, quando imperversò il conflitto sulla lingua d’insegnamento nelle scuole di St-Léonard, che causò, nel settembre del 1969, duri scontri tra i nazionalisti quebecchesi e gli immigrati italiani. I veri protagonisti di questo lungometraggio sono Mario Barone e Raymond Lemieux, avversari irriducibili perché leader dei due gruppi contrapposti.
Tra i tanti pregi di questo lavoro cinematografico vi è l’assenza di pregiudizi e di ostilità da parte del regista nei confronti degli “Italiens”, tradizionale bersaglio invece, in questa provincia, sia di offese che di rappresentazioni caricaturali. La grande umanità, l’obiettività storica e il rispetto dimostrati da Felix Rose per i vari personaggi, e in particolare per gli odiati “Italiens” del tempo, sono a mio avviso ammirevoli.
Per decenni, in questo angolo francofono di mondo l’immigrato italiano è stato rappresentato sullo schermo e nella pagina scritta secondo certi scontati, sgradevoli cliché. Il profilo del Mario Barone di ieri, e quello dei suoi figli, bambini allora ed oggi persone adulte, emergono dal lungometraggio provvisti invece di grande dignità; e ciò malgrado il ruolo d’opposizione svolto da Mario Barone verso l’insegnamento in francese, un ruolo quindi giudicato negativamente dai sostenitori della lingua francese; tra cui, in quel periodo, spiccava il padre di Félix: Paul Rose. Ma Félix Rose non è un uomo settario, e si attiene ai fatti.
Raymond Lemieux, idealista, patriottico, combattivo, tenacissimo, impone con forza i caratteri della sua vigorosa e quasi eccessiva personalità in questa appassionata e a tratti quasi convulsa narrazione della crisi di Saint-Léonard, fatta da Félix Rose. Ma sul personaggio cala alla fine un velo triste e quasi tragico, perché Lemieux, terminata “la battaglia”, finisce col cadere in un grave stato di depressione, di solitudine e di quasi povertà, causando anche la disgregazione della propria famiglia.
Paradossalmente, una porzione della numerosa parentela di Lemieux era rimasta ostile alla crociata francofona da lui condotta. Ma non è il solo paradosso: Raymond Lemieux era figlio di padre e di madre anglofoni, anche se suo padre era un discendente di franco-canadesi. Raymond stesso, del resto, prima di abbracciare con grandissima passione il francese era, agli inizi, piuttosto un anglofono.
Il carattere unitario della famiglia di Mario Barone fuoriesce magnificato anche per il contrasto con l’impietosa sorte toccata a Raymond Lemieux. I meriti familiari di Mario Barone, uomo coraggioso e imprenditore di grandi capacità, sono attestati, oggi, anche dall’esempio dei figli, ai cui ricordi e commenti sugli eventi di quei lontani giorni il regista concede uno spazio generoso. I figli di Mario Barone dimostrano di aver ereditato dal padre laboriosità, dirittura, moderazione, e grande rispetto per la nazione in cui vivono, il Québec, al quale si sono impeccabilmente integrati linguisticamente e culturalmente.
In questo documentario dai tanti meriti vi è però un’omissione: si omette di dire che gli italiani subivano spesso un rifiuto quando, poco dopo il loro arrivo dall’Italia, si presentavano in una scuola del sistema educativo francese richiedendone l’ammissione. La scelta della scuola spesso cadeva su quella che si trovava nelle vicinanze di casa.
Non una sola volta questa elementare verità, suffragata da migliaia di testimonianze, viene presa in considerazione da studiosi, scrittori, politici e registi del Québec che trattano il tema della lingua. Costoro, indistintamente tutti, sorvolano su una realtà storica inoppugnabile: l’accesso dei giovani italiani alle scuole francesi fu in tantissimi casi rifiutato dalle stesse autorità scolastiche, assai poco accoglienti nei confronti di questi immigrati che erano sì cattolici , ma non di ceppo “pure laine”.