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Twitter non è al di sopra della Libertà

IL PUNTO di Vittorio Giordano

La censura è inconciliabile con la Democrazia. C’è il sospetto di un calcolo politico: Trump messo al bando solo alla fine del suo mandato. Eppure, per 4 lunghi anni, il suo linguaggio incendiario è stato ‘tollerato’. Con ricadute convenienti e remunerative per il Big Tech…

Un’oligarchia digitale, un pugno di miliardari che controlla le più importanti piattaforme di comunicazione sul web, regolarmente quotate in borsa, dall’alto della loro “autorità morale”, si autoproclamano custodi della Verità e della Libertà e decidono unilateralmente di spegnere l’account del Presidente degli Stati Uniti d’America. Imprenditori come Jack Dorsey e Mark Zuckerberg assurgono ad arbitri supremi di cosa sia lecito dire, oppure no, nel dibattito pubblico. Senza possibilità di appello. Come nelle peggiori dittature. Con un clic, i Soloni di Twitter, Facebook, Instagram e Snapchat – ‘benefattori’ che la pandemia ha arricchito ancora di più – si arrogano il diritto di silenziare, censurare e imbavagliare il leader del paese-faro della Democrazia nel mondo. Danneggiando, di riflesso, i suoi 89 milioni di followers, solo su Twitter. E penalizzando gli oltre 74 milioni cittadini americani che lo hanno liberamente rivotato alle ultime elezioni. Da piattaforme di comunicazione senza intermediazioni a strumenti di controllo discrezionali: personaggi controversi come il presidente turco Erdogan e l’ayatollah iraniano Khamenei, infatti, continuano a cinguettare allegramente. Un vero e proprio attacco al principio irriducibile della libertà di manifestazione del pensiero. Un gesto condannato ‘senza se e senza ma’ anche dalla Cancelliera tedesca, Angela Merkel: “È possibile interferire con la libertà di espressione, ma secondo i limiti definiti dal legislatore, e non per decisione di un management aziendale”. Non stiamo parlando della Cina, dell’Iran o della Corea del Nord, dove gli oppositori politici vengono regolarmente perseguiti e perseguitati (per usare un doppio eufemismo), ma del Paese per antonomasia paladino della Libertà, tanto da volerla ostinatamente esportare; Paese fondato su una Costituzione il cui Primo Emendamento – il Primo, non il Secondo – tutela “la libertà di parola e di stampa”. Sia chiaro: una volta accertati i fatti, chi ha fatto irruzione in Parlamento causando la morte di 5 persone merita di essere processato e condannato. Ma dire che Trump abbia instigato all’insurrezione di Capitol Hill (come sostiene Twitter, per giustificare la chiusura dell’account) è una forzatura inaccettabile: il Presidente uscente ha chiesto alla sua gente, accolta poco prima nel giardino della Casa Bianca, di far sentire il proprio disappunto ai Parlamentari riuniti in seduta congiunta a Capitol Hill per certificare la vittoria di Biden alle ultime elezioni. Come succede in tutte le democrazie, con le manifestazioni fuori dai Palazzi del potere. Trump non ha mai chiesto ai suoi di mettere a ferro e fuoco il Campidoglio. Se qualche fanatico ha interpretato male il suo messaggio, è giusto che marcisca in galera. E non regge nemmeno la tesi della recidiva per il linguaggio violento e pericoloso che, oltre a costituire una minaccia per l’ordine pubblico, avrebbe violato il regolamento di aziende private che,  in quanto tali, hanno tutto il diritto di prendere provvedimenti, anche drastici, in piena autonomia. Ma davvero? Se ne sono accorti solo adesso? Dov’è stata l’‘Inquisizione digitale’ negli ultimi 4 anni? Donald Trump usa lo stesso linguaggio triviale, sboccato e incendiario dal primo giorno in cui ha messo piede nella Casa Bianca (20 gennaio 2017). Sono passati in cavalleria migliaia di cinguettii offensivi e talvolta volgari. Come mai i Giganti del web lo hanno silurato solo l’8 gennaio 2021? Francamente, il provvedimento appare tardivo e, quindi, sospetto. Sembra quasi che, per 4 lunghi anni, Twitter e company abbiano chiuso, non uno, ma due occhi sulle regole del gioco, per approfittare – in termini di visibilità e pubblicità – del privilegio di avere il presidente del Paese più potente al mondo usare in maniera rivoluzionaria le piattaforme digitali per alimentare il dibattito pubblico, anche nei rapporti internazionali. Un vantaggio formidabile, oltre che conveniente e redditizio, rispetto ai media tradizionali. Manna dal cielo. È innegabile che Twitter debba gran parte della sua fortuna proprio a questo “cliente” ingombrante, ma autorevole e influente. Salvo poi disfarsene a pochi giorni dalla fine del suo mandato, quando, guarda caso, i suoi tweet non hanno più lo stesso peso planetario. Il sospetto di un calcolo politico, figlio di una scelta ideologica, da parte di chi da sempre sostiene apertamente il Partito Democratico è più che legittima. E poi il paradosso dei paradossi: a togliere il megafono al presidente USA sono gli stessi giganti del digitale che per anni hanno difeso, non solo la totale libertà, ma anche l’assoluta irresponsabilità delle reti sociali per i contenuti diffusi. Fino all’8 gennaio; quando, all’improvviso, i magnati della Silicon Valley si sono riscoperti ‘salvatori della patria’, accollandosi anche la responsabilità sociale di vigilare sui contenuti. Uno spettacolare salto all’indietro con avvitamento carpiato. Vale tutto e il contrario di tutto. Ma chi controlla il controllore? Urge una regolamentazione dal punto di vista etico e giuridico: visto che il Big Tech dispone della nostra “vita e morte digitale”, non è più tollerabile che resti al di sopra della Legge, spesso sfruttando posizioni dominanti e anti-concorrenziali. Serve un’Autorità pubblica di garanzia, a cui appellarsi in caso di blocco, con possibilità di risarcimento e reintegro immediato. Dura Lex, sed Lex. È la Democrazia, bellezza! Perché la Libertà viene prima di tutto. Sempre. Elementare, Watson! 

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