In Italia, ogni due giorni, una donna perde la vita per mano di un uomo. La causa? Un “no’’ di troppo. Il termine femminicidio, per riferirsi all’assassinio di una donna perpetrato da un uomo e motivato dal disprezzo, dall’odio e dalla volontà di possesso, nasce appena trent’anni fa, negli ambienti giuridici statunitensi. Farne una “fattispecie criminosa a parte’’ sembrerebbe, secondo alcuni, superfluo: in fondo, il reato di omicidio comprende naturalmente anche quello commesso ai danni di una donna; insomma, all’ergastolo per omicidio servirebbe davvero aggiungere quello per femminicidio? Il fenomeno, comunque, ha sua importanza sociale e non può non interpellare le nostre coscienze. Perché un uomo giunge ad uccidere una donna? I recenti fatti di Fossò, vicino a Venezia, in cui Giulia Cecchettin è stata martoriata dal suo fidanzato Filippo Turetta hanno ricevuto, in questi giorni, un’attenzione mediatica particolare e hanno portato alla ribalta una supposta matrice patriarcale del reato ed in generale di tutti i femminicidî. Ora, il patriarcato, in quanto sistema regolativo di un dato ordine sociale, ad un’attenta analisi socio-antropologica, sembra non caratterizzare più la nostra società: le donne hanno smesso da tempo di svolgere una funzione meramente ancillare all’interno della famiglia (il nucleo storico di partenza dell’egemonia patriarcale) e sono sempre più al centro delle varie dinamiche sociali, economiche e politiche.
Quella che, semmai, resisterebbe è una “cultura patriarcale’’, nostalgica di quella funzione servile della donna, e che fa tutt’uno con un maschilismo che, di quella cultura, è propaggine comportamentale. È purtroppo vero che certi preconcetti secondo cui la donna sarebbe inferiore all’uomo, bisognosa da un lato di protezione e dall’altro obbligata a posture di sottomissione sociale, resistono ancora. È necessario operare sul capitale culturale di certi strati della nostra società che pretendono di ridurre la donna ad angelo del focolare precludendole la possibilità di ritrovarsi investita di ruoli, per habitus mentale, appannaggio degli uomini. Ma qui c’è qualcosa che va ben al di là della cultura patriarcale e del maschilismo. Filippo Turetta e tanti come lui sono il risultato di una famiglia che sembra disgregarsi, liquefarsi, pronta a permettere tutto, ad accontentare ogni capriccio. Giulia era il giocattolo negato al “bambino’’ Filippo che, in un rigurgito di possesso e marcatura territoriale, ha optato per la violenza. Davanti a un Padre che lacanianamente evapora, con dei genitori che iper-proteggono i figli diventando loro “compagni di gioco’’ o superficiali confidenti; davanti a insegnanti sottopagati, demotivati, quando – troppo spesso – non idonei a compensare le lacune educative della famiglia; con dei giovani che sempre più si affidano ai consigli di una chat dietro cui opera un’intelligenza artificiale per ricevere dei consigli, come stupirsi della mostruosità di un Filippo che ha optato per spezzare la vita di Giulia, trattandola come un divertissement che ad un certo punto ha smesso di funzionare e che (sic!) merita l’oblio della spazzatura?