Un moldavo senza fissa dimora, da poco tempo in Italia, ha pugnalato a morte un ventiseienne di Mestre che era intervenuto per difendere una donna, una colombiana, che lo straniero aveva aggredito per rapinarla. Il coraggioso giovane era un attivista del centro sociale: “Rivolta” dove faceva il tatuatore. Questo centro sociale è installato, abusivamente, in una ex fabbrica di Mestre, e le persone che lo occupano portano avanti, tra le tante cause progressiste, anche la difesa del diverso, del migrante, dello straniero. E difatti il comunicato, emesso subito dopo dal centro sociale, ha messo bene in evidenza che l’origine nazionale del criminale non c’entra nulla: “Ora diciamo solo che esigiamo di non essere usati da chi semina odio. C’è un colpevole. È una persona. Una singola. Non importa dove sia nato o di che colore abbia la pelle”.
In Québec e in Canada, noi di origine italiana eravamo considerati, in un recente passato, persone geneticamente e collettivamente portate al crimine, e l’origine italiana di chi contravveniva alle regole veniva strombazzata con ardore. Al contrario, nel Bel Paese l’origine dei delinquenti stranieri, veri stakanovisti nel campo del crimine (le statistiche parlano chiaro), è un particolare che viene maneggiato dai giornalisti con mille cautele. La Repubblica, La Stampa, Il Corriere si guardano bene dal far conoscere ai propri lettori che il contributo al crimine dei tanti stranieri irregolari, presenti nello Stivale, è molto alto.
L’idea ormai consacrata è che siamo tutti uguali, siamo tutti figli di Dio – figli di Allah, figli del dio guerrafondaio e un po’ razzista della Bibbia, o figli del Signore misericordioso del Vangelo – e che lo Stato-Nazione andrebbe abolito. L’Ue, del resto, sta cercando di farlo.
Il buonismo – soprattutto a chiacchiere – verso il migrante, lo straniero, il diverso, il disperato, trionfa nel Paese delle tante mafie e degli odi civili, dove ci si pesta a sangue tra tifosi di calcio e dove le aggressioni al personale sanitario sono di moda. L’a-nazionalismo è un fenomeno diffuso nel Bel Paese: l’italiano medio si sente cittadino del mondo e non dell’Italia. “Io non mi sento italiano” è il suo inno nazionale.
Per i buonisti mondialisti, nemici delle frontiere, gli esseri umani sono semplici individui, uguali gli uni agli altri, interscambiabili tra loro e ai quali vanno riconosciuti gli stessi diritti, sia che restino nel loro Paese sia che decidano di andare a vivere altrove. I diritti fondamentali sono l’altruistica ragione che ha spinto gli occidentali a bombardare i paesi che non rispettavano questi diritti: Libia, Iraq, Serbia, Afghanistan…
La realtà è che gli esseri umani non sono dei semplici individui isolati, atomizzati, sospesi nell’aria, disincarnati, ma degli esseri sociali la cui identità individuale è strettamente legata ad un’identità collettiva culturale di comunità, di gruppo, di etnia, di nazione, di Stato-Nazione. Ma oggi si tende a negare la realtà degli Stato-Nazione, in nome di un buonismo universalista che considera l’umanità composta di individui atomizzati, avulsi dalla cultura in cui sono nati e sono cresciuti nel proprio Paese. Ma l’homo sapiens è una cosa e l’individuo in carne ed ossa è un’altra. Quest’ultimo è figlio di una cultura, di un Paese, di una regione, di una storia, di un passato, con gli obblighi che ne conseguono, e difatti la legge nazionale gli impone una carta d’identità e anche un passaporto.
Occorrerebbe spiegare tutto questo a chi dall’alto delle mura vaticane fa urbi et orbi discorsi abolizionisti sulla nazione, sulla cittadinanza, sulla sovranità, sulle frontiere, sulle carte d’identità: ingombri da eliminare. Eppure, nel ben difeso piccolo Stato, non entra chi vuole. Un sano realismo, assai poco evangelico, impone a papa Francesco che portoni e mura restino ben saldi.