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Sanremo, capitale d’Italia

Ogni anno, per la durata del Festival, la città di Sanremo diviene la capitale d’Italia.

 

La canzone italiana, purtroppo, non ha più un suo stile proprio, una sua musicalità distinta, una sua identità; come era nel passato, quando le melodie di casa nostra riuscivano a superare i confini nazionali. Oggi l’abbattimento delle frontiere, il culto della diversità e il trionfo della lingua inglese, la globalizzazione insomma, hanno avuto ragione dei caratteri distintivi della musica leggera italiana. L’imperversante triste rap casereccio (pronunciato dagli italiani “reeep”) è uno dei tanti guasti causati all’Italia da una globalizzazione condita di esterofilia.

 

Sanremo somiglia a un Luna Park di esibizionismi, voyeurismi, moralismi, chiacchiere, rivalità, piccinerie, pettegolezzi, polemiche…  Più che festival delle canzoni, Sanremo è festival di se stesso: Sanremo celebra incestuosamente Sanremo. In cui non contano tanto i contenuti, quando la schiuma, i travestimenti, i lustrini, le polemiche, le chiacchiere.

 

Questa kermesse avviene all’insegna degli sprechi e delle esagerazioni, con l’istintivo dovere dei guardoni della platea di acclamare con una standing ovation chiunque emetta un suono sul podio.  Ho usato l’anglicismo “standing ovation” perché lo spirito imitativo imperante a Sanremo va di pari con la passione italiana per gli anglicismi. È il trionfo del copia incolla contrabbandato per trasgressione: vedi i ridicoli rapper (pronunciati “reeepper”) di casa nostra, caricatura dei modelli d’origine già di per sé caricaturali, e vedi gli orecchini maschili, i tatuaggi fin sul collo e sul viso, le acconciature carnevalesche, i travestimenti, e l’onnipresenza su scena e fuori scena dei diversi (il Santo Padre parlerebbe di “frociaggine”).

 

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Quest’anno, fortunatamente, Carlo Conti, il nuovo conduttore di Sanremo, è riuscito, almeno in parte, a tenere fuori dal festival certi eccessi fatti di rivendicazioni e di rancori, di odi politici o di altra natura: Lgbtq+, femminismo, wokismo, sindacalismo, e le tante isterie di una Sanremo caravanserraglio di comizianti, di esibizionisti e di giullari arrabbiati.

 

La canzonetta nostrana si è voluta installare sul carrozzone di un internazionalismo da armata Brancaleone perdendo identità e autenticità. I cantanti di casa nostra, perché gloriosamente “internazionali”, disdegnano persino il nome e cognome che ricevettero da mamma e papà, e adottano nomi del genere: Bresh, Coma Cose, Willie Peyote, Rkomi, Fedez, Brunori Sas, Olly, Irama, Tony Effe, ecc. Ogni mio commento sarebbe inutile su questo infantilismo da colonizzati. Tra le tante penose imitazioni vi è anche il ritmo arabizzante che nel 2019 è stato portato alla vittoria, nella terra già del bel canto, dalla voce nasale e cantilenante di Mahmood, il nostro nuovo Modugno.

 

Il festival tenta ogni volta la quadratura del cerchio. Infatti, accanto ai “big” del momento vengono riproposti alcuni “big” di ieri, anzi dell’altro ieri. E su tutti il pubblico italiano riversa una cascata di complimenti: “Bravo! Bravissimo!” La TV italiana, anche al di fuori del festival, è piena di un ridicolo fuoco pirotecnico di complimenti esagerati di cui beneficia chiunque poggi un piede, anche se per sbaglio, su un palcoscenico.

 

Il parlare per parlare, le polemiche, i pettegolezzi, le simpatie e le antipatie viscerali sono il collante che tiene uniti gli italiani davanti a questo focolare anacronistico evocante il paesello, il borgo, l’angolino natale di un tempo, quando in famiglia – spesso una famiglia numerosa – si amava spettegolare (“fare gossip” si direbbe oggi) a pranzo e a cena sui fatti degli altri. Quel tempo rivive, sorprendentemente, nell’Italia di oggi dove non si fanno più figli.

Per nostra fortuna, lo Stivalone non è ancora entrato interamente nell’alienante modernità: la quale sancirebbe la fine del palcoscenico sanremese. E sarebbe un peccato dire addio a questo teatrino che ogni anno celebra la conflittuale, caotica, problematica ma colorita unità d’Italia.

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