Al posto dei termini nostrani consacrati dall’uso, che tutti nello Stivale usano e capiscono, gli italiani amano adottare parole e parolette americane. Ai nostri provincialotti ammalati di “estero”, tali parole appaiono esotiche, brillanti e vibranti, mentre sono quasi sempre inutili o mal scelte, e fanno ridere anche perché sono da loro pronunciate in maniera in genere sbagliata: vedi “biiipartisan” per “baipartisan”, “gheep” per “gap”, e via continuando. Risultano poi cacofoniche ed incongrue perché i fonemi inglesi contrastano con l’eufonia della lingua italiana. E pensare che per evitare il deprecato “suona male” gli italiani hanno amputato del participio passato verbi come “risplendere” ad esempio, il cui risplenduto si è irrimediabilmente perduto. Si evita poi il femminile “ministra” perché suona male alle orecchie. Ma l’inglese evidentemente è una minestra che tutti gli italiani devono mangiare. Tappeto rosso, anzi “red carpet” come tutti ormai dicono, per le parole e le locuzioni inglesi.
Solo in pochi casi il termine importato colma una reale lacuna del vocabolario italiano non proprio ricchissimo in tutti i campi del sapere, mentre il più delle volte il forestierismo è puro scimmiottamento da colonizzati. Un tale fenomeno di scimmiottamento è forse la risposta in campo linguistico all’insistente appello di “copia e incolla”: metodo spicciativo e parassitario che i partecipanti alla miriade di programmi televisivi basati sulle chiacchiere non si stancano di proporre come maniera di correggere i mali italiani. Peccato che i partecipanti a questi urlanti programmi, in cui si propone il modello straniero come soluzione ai problemi della penisola, non siano in grado di comportarsi da svizzeri, da austriaci o da svedesi neppure per pochi minuti, dimostrando di saper avere un normale scambio d’idee e di essere capaci di discutere in maniera pacata e civile in TV, invece di voler avere a tutti i costi ragione imprecando e urlando, come fanno di norma.
È inevitabile che l’inglese sia presente nella nostra lingua in relazione ad una certa terminologia invalsa in Rete, come “cookies” ad esempio e “app” che sta per “application” (che potrebbe essere resa in italiano con “applicazione informatica”). Ma il crescente uso di termini inglesi inutili riduce ancor di più la ricchezza e la varietà della nostra lingua, nella quale termini validissimi cadono in disuso perché rimpiazzati dalla magica paroletta americana. Vedi “killer”, termine che ormai da tempo troviamo al posto di “uccisore”, “assassino”, “omicida”, “sicario”. E vedi “badge” al posto di “tesserino”, “cartellino” o “scheda identificativa” che si usano al lavoro. “In tilt” è un’altra ridicola parola, tratta dal “gioco del flipper” e che è usata oggi a bizzeffe anche da chi non si è mai servito in vita sua di una “pinball machine”. O vedi “writer” che nel parlare italiano non sta per “scrittore” ma per “imbrattatore di muri”, ossia sta per “graffitaro” o “graffitista”. “Rider” da parte sua designa per gli italiani il “ciclo-fattorino” ossia il corriere, il fattorino che fa le consegne spostandosi in bicicletta.
Trattando il tema degli anglicismi, è fondamentale distinguere, ma i giornalisti, gli intellettuali, i politici e i burocrati italiani non lo fanno, tra i “prestiti di lusso” ossia superflui, i quali hanno come effetto di impoverire la nostra lingua di cui rimpiazzano termini validi, e i prestiti invece “di necessità” (“stent” ad esempio) che colmano una lacuna dell’italiano. Ma molti dei nostri prestiti dall’inglese sono “prestiti di lusso”; anche se nella maniera sgangherata in cui sono usati dagli italiani non hanno nulla di lussuoso. Ed anzi, nella maniera balorda in cui sono usati e pronunciati, questi anglicismi sembrano avere le pezze al c…o.