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Québec, 2024. Uno sguardo all’indietro

Nella nostra “provincia-nazione”, anche dopo la “Rivoluzione tranquilla”, spartiacque del moderno Québec, i cambiamenti non sono mancati. Il 1976 è stato l’anno della salita al potere del PQ, partito separatista. 

Non era da molto trascorsa la “Rivoluzione tranquilla”, durata circa un decennio e che aveva visto la drastica perdita di potere della Chiesa, sostituita, nei numerosi ruoli a carattere civile e sociale fino allora avuti, dallo Stato Québécois. 

 

La rivoluzione tranquilla non aveva messo fine però al complesso vittimistico causato dalla disfatta delle “Plaines d’Abraham”(1759) e dalla “Conquista inglese” (1760).  Nonostante l’Expo 1967 e le Olimpiadi dell’estate del 1976, eventi che avevano aperto un po’ il Québec al mondo, il corpetto “tricoté-serré” dell’identità etnoculturale continuava ad avviluppare come un bozzolo i nostri quebecchesi, tutti “trop bons” e i soli a parlare il francese “senza accento”.

 

La natalità dei quebecchesi, che già nel 1976 era in forte declino, è oggi ai minimi storici. Gli “immigrants” da un paio di decenni ormai non sono più chiamati “néo-Québécois”. Scomparsa ugualmente l’etichetta “néo-Canadiens”. Sono scomparsi, insomma, i nei, ma non tutti. Fino al 1976 e anche un po’ oltre, di nei ossia di difetti i Québécois ne attribuivano parecchi a noi italiani, che venivamo pubblicamente sbertucciati e demonizzati, anche  perché, secondo la cupa leggenda, noi eravamo al servizio degli inglesi quali accaniti propagandisti dell’anglofonia. Eravamo inoltre quasi tutti mafiosi. 

Tra i tanti cambiamenti intervenuti in Canada è da menzionare il multiculturalismo di Stato introdotto da Pierre Trudeau (1971). In Québec, invece, vige l’interculturalismo.

 

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Il crollo del Muro di Berlino (1989) ha segnato la disfatta di una utopia-distopia costruita anche sulla distorsione del vocabolario, con le dittature comuniste chiamate “democrazie popolari”.  In Québec esistevano gruppuscoli di aspiranti rivoluzionari di ogni sorta, tra cui i maoisti, i comunisti pro-albanesi esaltatori di Oxa, i comunisti filosovietici ortodossi, e i tanti altri fedeli della Chiesa marxista. 

 

Il terreno ideologico dell’odio anticapitalista non ha prodotto, in Québec, i frutti sperati. Anzi, dopo il crollo del Muro antifascista di Berlino, molti degli accesi rivoluzionari del Québec di allora si sono proficuamente inseriti nel sistema capitalistico nordamericano. Tra questi rivoluzionari, passati dal Capitale di Karl Marx al capitalismo di Adam Smith, menzioneremo Gilles Duceppe (Bloc Québécois), Jean-François Lisée (PQ), Alain Dubuc (La Presse), P. K. Péladeau (Québécor)… 

 

Una caratteristica dei quebecchesi è la pronta adesione alle forme e ai valori dell’epoca di cui sono contemporanei. In ciò io vedo la tradizionale capacità di mimetismo della nazione quebecchese, pronta all’adattamento e al trasformismo. Il che ricorda i “coureurs de bois” di un tempo, cugini carnali degli autoctoni del nostro Canada, entrambi abili nell’integrarsi e nel mimetizzarsi nella Natura.

 

Nella “provincia-nazione” Québec vi è stato il crollo dei valori e delle forme di vita tradizionali, minati dal progressismo con le sue galoppanti sperimentazioni sociali. È rimasta però, irremovibile, la difesa della lingua: fattore irrinunciabile dell’identità dei discendenti dei colonizzatori venuti dalla Francia; i quali di francese, in verità, hanno oggi assai poco, a causa anche dell’estromissione dalle scuole, tempo fa, dei gesuiti, insegnanti di prim’ordine e rimasti fedeli alla gloriosa Francia. Permangono la poutine e le fèves au lard (in realtà fagioli e non fave) quale piatto forte dell’identità culinaria “francese”. E rimane l’ultimo bastione, fortemente assediato: la lingua francese. Che i quebecchesi difenderanno sempre, con le unghie e con i denti.

Noi oggi viviamo una pausa della febbre separatista. Pausa che dura ormai da tempo. Ma non si sa per quanto ancora…

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