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L’opinione di Claudio Antonelli: criminalità, un primato linguistico italiano

Leggendo la presentazione di una conferenza sulla lingua italiana, svoltasi all’Istituto italiano di Cultura di Montréal, si rimane colpiti da queste parole: “Davvero l’italiano è la lingua più bella del mondo? Da lingua dell’amore, della filosofia e della poesia, l’italiano è poi diventata la lingua del calcio e della moda. Oggi la cucina e la criminalità sono certamente i due settori di un indiscusso primato linguistico dell’italiano.”

Il sapiente giudizio mi trova d’accordo. Nel campo del crimine, la lingua italiana occupa una posizione di tutto rispetto.

La lingua degli Inuit (eschimesi) dispone di un alto numero di termini designanti la neve e il ghiaccio. La lingua araba vanta un’ampia gamma di vocaboli atti ad identificare i vari tipi di sabbia. Gli italiani possono vantarsi di possedere un ricco vocabolario designante la complessa realtà del crimine, e se non tutti lo fanno ciò avviene per modestia, o forse per reticenza, e nel nostro tormentato Sud probabilmente per omertà.

Ogni popolo ha il patrimonio linguistico ossia il thesaurus che merita. Ed è importante che noi italiani salvaguardiamo la nostra ricca nomenclatura criminosa, perché dopo tutto essa è – tanto per restare in tema – cosa nostra.

I gerghi malavitosi nella Penisola sono tanti. Vi è il mafiese, lingua della mafia, erede del baccagghiu, che era il gergo dei piccoli malavitosi siciliani e cui facevano ricorso anche i cantastorie che celebravano le prodezze e le infamie degli adepti dell’onore e del disonore; moltitudine nell’isola del rosso delle arance e del rosso dovuto alla lupara; talvolta – è vero – “lupara bianca”, ma ugualmente letale.

Vi è il “dritto” che è il gergo dei giostrai e baracconisti sinti del Veneto – proprietari o lavoranti di baracconi da fiera – non tutti certamente malandrini, ma gente col pelo sullo stomaco, questo sì.

Scomparso è il gergo dei briganti del Mezzogiorno, che a partire dall’Unità d’Italia è stato sostituito dal burocratese e politichese dei nostri politicanti, che fanno una politica da briganti a Roma facendo rimpiangere, a molti, nel Sud i Borbone, e nel Nord gli Asburgo.

Nel paese del mammismo, e della famiglia vista come una cosca siciliana o una ‘ndrina calabrese, persino il sacro termine “mamma” ha una connotazione mafiosa. “Quando mamma comanda, picciotto va e fa” ammonisce il detto degli “uomini d’onore”. Il capo società è chiamato anche mamma. Ma di mamma non ve n’è una sola… Al tempo del processo Cuocolo, infatti, il nome della camorra, per i suoi affiliati, era “bella mamma”. E, come dice la canzone, “sono tutte belle le mamme del mondo…”

Con il gusto che gli italiani trovano nel loro continuo sbrodolarsi d’inglese, oggi però si rischia d’impoverire anche il ricco significato di mamma. Il che sarebbe un imperdonabile sgarro all’onore di un’intera onorata società, la quale merita, secondo me, un minimo di rispetto linguistico. No, la mamma non si tocca, dovrebbero dire da veri uomini d’onore, e anche da affettuosi mammisti, gli italiani. Ma non dobbiamo neppure recare offesa al padre, che tanto dà alla sua onorata famiglia. Tradizionalmente il capo della mafia è chiamato padre o anche capofamiglia. Il corleonese Michele Navarra, forse l’ultimo esponente della vecchia mafia, era chiamato con grande rispetto “u patri nostru”. In altre organizzazioni mafiose il capintesta è invece chiamato zio, mentre i camorristi sono i nipoti, e gli aspiranti camorristi sono i cugini. Padre, zio, nipoti e cugini… Viva la famiglia italiana!

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