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Lo zibaldone di Vincenzo Thoma. Dell’amore

Am: non c’è radice linguistica più affascinante e misteriosa di quella da cui deriverebbe l’Amore, un sentimento i cui confini sono, da sempre, stati oggetto di riflessione filosofica e psicologica. Passare brevemente in rassegna le differenti ipotesi di derivazione etimologica di questo termine potrebbe, infatti, offrirci l’opportunità di riflettere sul significato intimo del concetto. Ora, un’interpretazione diffusa è quella di far risalire la parola “amore” al sanscrito, e precisamente alla radice -Kam (che con la perdita della “k” diventa appunto “am’’), che rinvierebbe all’idea di desiderare fortemente e visceralmente qualcuno o qualcosa. Ci chiediamo, allora: l’amore si risolverebbe davvero nell’espressione di un impulso irrefrenabile al possesso di qualcuno? Ho i miei dubbî che si tratti solo di questo.

Peraltro, la situazione non muta se facciamo derivare la parola “amore’’ dal greco “mao’’ il cui significato è, ancora una volta, quello di volere e desiderare quasi animalescamente l’oggetto del proprio desiderio. Non faceva differenza l’uso del termine nemmeno nella lingua latina che con “amare’’ indicava un trasporto involontario delle emozioni di un individuo verso l’oggetto del proprio desiderio, una sorta di pulsione incosciente, selvaggia, predatoria. Nulla di razionale, insomma, nell’amore? A dire il vero, quando il sentimento verso una persona o un aspetto della realtà era il frutto di una scelta ben ponderata, i Latini preferivano il termine “diligere’’, di cui oggi abbiamo eco parlando di ‘’diletto’’, con tutto il riferimento al “logos’’ dei Greci.

Ma se l’amore è qualcosa di irrazionale ed egoistico (e Platone ha scritto pagine bellissime nel suo “Simposio’’ immaginando l’Amore come il sentimento di un vuoto che dobbiamo colmare e che ci spinge alla ricerca dell’Altro quasi con “scalza’’ disperazione), che ne è dell’Amore di una madre per un figlio? Che ne è dell’Amore di chi lascia andare la persona amata, che la libera da ogni vincolo, che sceglie di amare sopportando l’assenza e la mancanza della persona amata? È qui che mi sovviene Sant’Agostino e la sua idea di un Amore in cui il nostro “io’’ si fonde talmente nel “tu’’ dell’Altro da non desiderarne che la libertà, il bene, lo spazio entro cui chi amiamo si realizza, si espande, vive, esiste. È.

“Volo ut sis”, scriveva Sant’Agostino: “voglio che tu sia”. È l’Amore del genitore che libera il figlio. È l’Amore di chi non impedisce alla persona amata di seguire il suo cammino. Un Amore tale ci spinge a coniugare, innanzitutto, ogni verbo al “tu”. Voi che ne pensate?

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