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Le brutte sorprese dei “cittadini del mondo”

Giornali, radio e tv, in Italia, hanno dato ampio rilievo alla disavventura del giovane italiano che a Miami è stato trattato brutalmente dalla polizia locale. Cosa aveva fatto di tanto grave? Il venticinquenne, che  si trovava in stato di leggera ebrietà in un locale di spogliarelliste, confrontato dai poliziotti che erano lì giunti a causa di un diverbio, ha creduto di potersi comportare negli USA come avrebbe fatto in Italia: agitandosi, non smettendo di arringare e moralizzare a voce alta e, oltraggio supremo, ha osato toccare col dito riprovatore la targhetta identificativa (badge) di uno degli agenti. Non voglio certamente attribuire la colpa dell’accaduto alla vittima, ma il giovane avrebbe dovuto sapere che “Paese che vai, usanze che trovi”.

 

A questo proposito, a un italiano che metta piede per la prima volta in Nord America, sarebbe utile far sapere che, qui, con la polizia non si scherza; e quindi con gli agenti non si alza la voce, non si gesticola, non si fanno gesti bruschi, ed anzi si obbedisce docilmente a quanto essi ci dicono di fare. Questa è la realtà in Canada e soprattutto negli USA.

Una disavventura simile a quella occorsa all’italiano a Miami è toccata a Ilaria Salis, che in missione antinazista a Budapest ha pensato di poter aggredire e picchiare un ungherese, presunto nazista, colpevole di aver partecipato a una commemorazione di quei suoi connazionali che, alleati dei tedeschi, nell’ultima guerra difesero la loro patria dall’attacco dei sovietici.

 

Anche per l’Ungheria vale il detto: “Paese che vai, usanze che trovi”. E in Ungheria, il pestare a sangue un presunto filonazista è un reato perseguibile penalmente. La nostra Salis ormai ha imparato che, all’estero, si agisce “cum grano salis”, invece di seguire ciecamente il proprio lodevole, ma molto tardivo e direi antistorico, ardore antinazista.

 

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Il che mi fa riandare alla giustificazione addotta in un tribunale thailandese da due giovani turisti italiani (altoatesini) accusati di aver dissacrato alcune bandiere thailandesi: “Non sapevamo…In Italia non si dà tutta questa importanza alla bandiera”. Anche per loro vale il detto: “Paese che vai, usanze che trovi” o anche “Tutto il mondo non è paese”.

Questi due saggi refrain devono giungere molto sgraditi alle orecchie di chi si sente “cittadino del mondo” e di chi crede che “tutto il mondo è paese”; ossia i tre quarti della popolazione dell’ex Bel Paese. I nostri instancabili ripetitori dei mantra: “siamo tutti figli di dio”, “tutto il mondo è paese”, “mi sento un cittadino del mondo”, dovrebbero trarre invece profitto da questi episodi ed imparare a rispettare le regole vigenti nei paesi che visitano. Cosa difficile da fare per loro, indifferenti alle regole anche in Italia.

 

I nostri mondialisti all’amatriciana amano proclamarsi cittadini del mondo perché fanno astrazione degli obblighi imposti dai governi ai loro cittadini. Questo dichiararsi “cittadini del mondo” è in realtà un essere cittadini di nessun luogo, perché il mondo si divide in nazioni, ognuna con i suoi valori, il suo passato, le sue regole, i suoi costumi.

 

Il generale Roberto Vannacci sa molto bene che tutto il mondo non è paese, e che la frase “sono cittadino del mondo” è una dichiarazione da asilo infantile. Egli ci racconta nel suo “Il mondo al contrario”: “Nel 1993, a Mogadiscio, ho assistito impotente al taglio della mano e di un piede ad un giovanissimo somalo che si era macchiato di un furto. Questo ‘concedeva’ la cittadinanza somala in tema di diritti e di doveri. È quindi facile da capire come la pretesa di essere cittadini del mondo sia un’espressione inappropriata ed inesistente.”

 

Mi scuso per aver riportato un pensiero espresso dall’amante della nazione Vannacci nel suo “Il mondo al contrario” : “il Mein Kamps del generale”, secondo la definizione fornitaci dai nostri antinazionali “cittadini del mondo”. Degni cittadini questi ultimi non di uno stato-nazione ma di un’Italia rimasta per loro “espressione geografica”.

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