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L’autoreclusione dei giovani snob

 

Ricordo i miei lontani sedici anni, a Roma. Villa Ada, una panchina. Tante panchine. Le lezioni studiate tra un calcio ad un pallone e un bacio rubato, il profumo dell’erba nelle narici mentre si rotolava giù per una spinta amichevole, la ‘’canzone del sole’’ di Lucio Battisti strimpellata per gli occhi innamorati di una ragazza o per l’allegra sguaiatezza del coro dei nostri compagni di classe. Ci si rifletteva nello sguardo dell’Altro. L’Altro era il nostro specchio. E oggi? Oggi l’Altro si è trasformato nell’inquietante luminescenza di uno schermo. E quel ragazzo di tanti anni fa si è mesmerizzato davanti a un piccolo totem che lo inganna promettendogli una falsa ubiquità, impedendogli di esplorare la vita, di esperire la propria esistenza e finendo per imprigionarlo tra le sbarre della propria solitudine. Questa non è un’impressione. È la realtà delle cose. Il Journal of Adolescence, una rivista scientifica eterovalutata (e quindi del tutto attendibile) conferma che i giovani di oggi preferiscono le relazioni virtuali a quelle fisiche, peraltro pronti a troncarle, dovessero richiedere un certo ‘’impegno’’. E quando, magari, ci si incontra di persona? Provate ad entrare in alcuni di questi luoghi pubblici frequentati dai giovani per consumare un caffè o una pizza: li vedrete intenti a un’attività preoccupante che un gruppo di lessicografi ed autori hanno denominato phubbing, un neologismo sincratico, cioè una parola macedonia formata dall’unione di due termini, phone e snub; in pratica, i giovani, pur sedendo vicini, si ignorerebbero vicendevolmente, si ‘’snobberebbero’’ andando a verificare l’attività del proprio cellulare sui media sociali di preferenza, senza comunicare con la persona che siede loro davanti. Una solitudine invincibile che neanche il calore della presenza dell’Altro può scongiurare. Quella di oggi è una generazione che si immura, che reprime l’impulso di vivere esistendo e proiettandosi nella realtà,  che si chiude nei confronti del prossimo e che ci fa pensare a quello che Umberto Eco definiva il fascismo eterno, fisiologico, secondo il quale l’Altro non è visto come opportunità di una necessaria e fruttuosa socializzazione. Nel giovane dell’hikikomori globale, l’Altro è un potenziale nemico da evitare, da ignorare attraverso un’autoreclusione la cui deriva è il disagio psicologico, una melanconia parossistica che sfocia nella depressione e, in troppi casi, nella scelta suicidaria. Vado a prendere la mia chitarra e a suonare ‘’La canzone del sole’’ per i miei studenti. Qui, bisogna reagire.

 

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