Se potessimo entrare in ogni cucina italiana ed ascoltare una conversazione tipica tra una mamma, magari un po’ avanti con l’età, e un figlio adulto che le fa visita, sono convinto che ci troveremmo davanti ad espressioni come queste: “Vuoi che ti faccio un caffè?’’ – divertente, notare il mio programma Word bacchettarmi virtualmente sulle dita, proprio mentre sto scrivendo, per rimproverarmi l’orrore di quel “faccio’’; orrore che, ovviamente, non correggerò -. Ebbene, siamo davanti a un uso vivo della lingua e che non può non esser studiato e considerato da chi si occupa(i) di diffonderla. Nel mio lavoro di “facilitatore di una lingua straniera’’, una delle ultimissime indicazioni che mi permetto di offrire agli studenti più esperti, sicuramente tra le più ardue, riguarda proprio l’uso diafasico della lingua italiana, cioè quello relativo alla varietà dei registri che possono farci optare per forme non proprio accettate dalla normatività grammaticale. Nell’esempio della mamma e del suo amorevole caffè, un “Vuoi che ti faccia…?’’ potrebbe instillare nel figlio il sospetto che la madre si sia, come dire?, affettivamente allontanata da lui, serbando in sé dei risentimenti inespressi, o che forse sia, in realtà, un clone con il chip dell’ortodossia sintattica (se l’Intelligenza Artificiale continua di questo passo, tutto è possibile!). È, insomma, l’antica diatriba tra prescrittivismo e descrittivismo linguistico, tra chi guarda alla lingua come a un testo sacro che non consente eresie e chi, al contrario, quella lingua, osserva come si fa con un organismo vivente, nella sua tendenza alla mutabilità, all’adattamento; io aggiungerei, alla sua affettività. Non intendo dire, con questo, che le mamme odiano il congiuntivo!
Le sentiremo ancora dire cose come “Non sia mai!’’ o “Che Dio ci aiuti!’’. Il congiuntivo è modo verbale che, seppur in declino, è bene sopravviva, per evocare, nella frase dipendente, quel grado di soggettività e opinabilità del tutto necessario in determinate circostanze – confesso di fare una fatica erculea quando dico in francese “J’espère que tu as raison’’-, e in fondo mi compiaccio della resistenza dell’italiano in questo senso. Ma, al netto delle teorie galileiane nell’età della scoperta (sic!) del continente americano, non credo all’impero di quella che Calvino definiva l’antilingua, una lingua astratta, asettica, priva di vita, ossequiosa di regole spesso anacronistiche e incapace di descrivere la realtà come la percepiamo e la sentiamo. Intanto, il mio programma Word si ostina a bacchettarmi!