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La tirannia del bambino

Una delle strategie che adotto nel mio lavoro di facilitatore nell’acquisizione scolastica della lingua italiana è quella di presentare ai miei giovani italianisti notizie d’attualità di un certo interesse, allo scopo di arricchire il loro repertorio lessicale, rinforzando magari alcune strutture sintattiche, e favorire la discussione in classe. Sono momenti di immenso valore pedagogico. In questi giorni, per esempio, si è riflettuto sulle vicissitudini di Matteo Falcinelli, un venticinquenne di Spoleto residente a Miami per ragioni di studio, alle prese con la polizia locale che lo ha trattato con una certa energica dissuasività nei pressi dell’entrata di un locale notturno. Pochi minuti prima, Matteo si lamentava con le forze dell’ordine per l’essere stato cacciato dal club, senza che lo staff gli restituisse due cellulari confiscatigli per non aver pagato il conto. Nelle immagini riprese dalle microcamere in dotazione ai poliziotti, si vede il giovane rampognare questi ultimi animatamente, sfiorare il distintivo di uno di essi come farebbe un diretto superiore davanti all’inefficienza di un subordinato, esigere che siano gli agenti stessi (semmai!) a rivelare al… “comandante Matteo Falcinelli’’ la loro identità, fino al punto di minacciare i poliziotti con la prospettiva di conseguenze fisiche e legali, con tanto di gesti volgari ed inequivocabili. Insomma, si assiste a una comica inversione dei ruoli che finisce, purtroppo, per indurre le forze dell’ordine a “calmare energicamente’’ il Matteo furioso, immobilizzandolo e traducendolo in una stazione di polizia, per poi perfezionarne le intemperanze con ulteriori misure di neutralizzazione.

 

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Invitati i miei ragazzi ad esprimersi sulla vicenda del giovane e sulle ragioni che potessero averlo indotto a reagire in quel modo, quasi tutti hanno trovato che a Matteo mancasse la capacità di giudicare la realtà in maniera saggia ed equilibrata, di non far prova di alcun rispetto dell’autorità delle forze di polizia e di non saper manifestare il dissenso in modo civile. Quando, poi, ho chiesto ai miei giovani italianisti di ragionare sulle ragioni di tale comportamento, con mia grande sorpresa, essi hanno fatto riferimento all’inquietante fenomeno di una genitorialità permissiva, prona ai capricci dei figli, sostanzialmente assente, disposta ad affidare un figlio alla triste luminosità di uno dei tanti schermi della nostra era tecnologica e troppo incline a diventare amica dei figli. In altre parole, si tratterebbe di una genitorialità evaporata, come direbbe Lacan. Françoise Dolto, una celebre psicanalista, affermava che essere genitori è sempre un fenomeno sociale dell’adottività: non si è genitori nel semplice accadimento biologico; si è genitori, invece, proprio dopo la nascita di un figlio, adottandolo e consacrando ad esso un’attenzione che non si risolve nel possesso, nel controllo, o nello stabilire una relazione di complicità amicale. Matteo si è comportato come il bambino a cui, in passato, si sia negata una voglia irrealizzabile e che i genitori non sono stati in grado di compensare con un amore autentico, fatto di dialogo, e non di concessioni. C’è un proverbio della nostra Belle Province che recita: “I genitori possono regalare ai figli solo due cose: le radici e le ali”. Le radici, per riuscire a trovare casa in ogni luogo. Le ali, perché il desiderio ci faccia volare e non sprofondare nell’abisso della solitudine.

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