La morte di papa Francesco suscita in ognuno di noi emozioni, riflessioni, giudizi; ed evoca anche precisi ricordi in chi ha vissuto a lungo ed è stato testimone della morte di diversi altri papi. Questi ricordi, queste riflessioni, questi sentimenti accrescono in noi un senso di perdita e di solitudine.
Noi siamo soli con il nostro vissuto, la nostra cultura, le nostre idee, i nostri rapporti col mondo. Con la morte di Francesco, molti ripeteranno i discorsi di fratellanza universale. Io crederò alla concretezza e fattibilità di questa teorica bontà universale quando vi saranno mamme che diranno: “Io amo i miei figli, ma amo con la stessa intensità tutti i bambini del mondo”. O quando gli italiani diranno prima delle elezioni: “Sarò contento se vincerà il mio partito, ma altrettanto contento se vincerà il partito avversario”. E crederò a questo amore universale quando negli stadi i tifosi applaudiranno tutti i gol, quelli fatti ma anche quelli subiti dalla loro squadra.
La morte del papa, questo padre dell’umanità intera, suscita in me un sentimento di attaccamento al passato, e di amore per la terra di nascita, e per la cultura che Roma esprime. Io provo un profondo rimpianto per Roma. La Roma dei Cesari e dei Papi, ma che è stata anche la Roma in cui io da bambino mi recavo, da Napoli, in visita a certi carissimi parenti. Eppure, nonostante questi miei sentimenti forse limitati e anche egoistici, io ho sempre avvertito gli effetti della meravigliosa azione svolta da Gesu’, da cui è emanato un insegnamento autenticamente rivoluzionario basato sul rispetto incondizionato della dignità umana, e della pietà per i poveri, i vinti, gli afflitti.

La morte del Papa mi fa riandare all’egoismo pratico quotidiano che purtroppo affligge gran parte dell’umanità. Ho un ricordo tuttora vivido di treni, pieni di poveri italiani, anni ed anni fa. Prendevo il treno per rientrare a Napoli, dal collegio a Teramo, a Natale, per le vacanze. E ugualmente prendevo il treno per rientrare in collegio. Ebbene, erano sempre le stesse scene. Chi aveva trovato un posto a sedere non accettava volentieri che altri viaggiatori, saliti a una stazione successiva, entrassero nel ‘‘suo’’ scompartimento dove lui e pochi altri erano comodamente installati o anche sdraiati. Di conseguenza, tiravano ben bene le tendine per impedire la vista dell’interno dello scompartimento a chi passava nel corridoio, e se era di sera tardi o di notte spegnevano la luce e anche mettevano la sicura alla porta scorrevole non intendendo aprire a nessuno. O anche, subito dopo essersi messi a sedere, ponevano su un paio di posti vuoti qualunque cosa avessero a disposizione: un pacchetto, una giacca, una maglia, uno scialle, per avere la risposta pronta per chi dal corridoio facesse capolino, domandando: ‘‘Scusi, questo posto è occupato?’’ ‘‘Sì, è occupato’’, rispondevano con una suprema faccia tosta.
Sembrano cose da poco, ma per me queste situazioni spalancarono una finestra su una realtà alla quale, essendo così giovane, non ero preparato, e che consideravo assurda: il rifiuto di riconoscere agli altri un diritto elementare. Oggi chiameremmo ciò mancanza di civismo. Devo dire che io, avendo ricevuto dai miei genitori, esuli istriani, una educazione profondamente patriottica, giudicavo che questo atteggiamento egoistico rivelasse una mancanza di dignità nazionale, di spirito italiano, di fratellanza nazionale. Forse che il mio civismo a base nazionalistica era un impedimento a un amore più ampio? Non penso, così come non penso che il voler tenere pulita e in ordine la propria casa e il cercar di comportarsi bene con chi vive sul nostro stesso suolo patrio, e quindi ha lo stesso nostro destino nazionale, siano un impedimento ad allargare gli orizzonti del rispetto e dell’amore e ad estenderli agli altri.
Ma il buono e il giusto devono esistere nel concreto, nei fatti, nei comportamenti, perché i discorsi virtuosi, se svincolati dalla realtà effettuale del proprio agire, sono comodi ma ingannevoli. Vedi l’Italia, paese dove persino i disonesti e i violenti – inclusi i tanti ladri e borseggiatori giunti da altrove – moraleggiano ad oltranza.