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La fatica della parola

Pensare all’idea di parola mi suscita meraviglia. Aristotelicamente, terrore e meraviglia. L’essere umano è il solo animale in grado di intrecciare la fisicità di un suono con l’espressione del pensiero. E non c’è pensiero che non si incunei saldamente in una parola.

De Saussure, il fondatore della linguistica, distingueva, a ragione, la “parole’’ dalla “langue’’, quest’ultima intesa come il sistema astratto che organizza e lega l’uso che ognuno di noi fa delle parole che costituiscono un determinato idioma. A differenza della Lingua, una Parola pulsa, opera, vive. Vive nel sangue di chi è ferito, nel sudore di chi costruisce qualcosa, nel pianto di chi ha perso una parte di sé. La parola è parabola, lancia mondi davanti a noi e, in quelli, essa si riflette. Una parola, in fondo, crea.

È consustanzialmente poetica, oserei dire. Sono intimamente convinto che una parola possa anche guarire. Come, ovviamente, ferire. E uccidere. Ci sono ancora medici che sentenziano laconicamente sulla brevità del tempo da vivere che resta al loro paziente, senza infondere loro un minimo di speranza. Ci sono ancora insegnanti che non esitano ad assegnare uno studente al girone degli incapaci, senza nemmeno considerare un ripensamento del loro approccio pedagogico. Una parola costa tempo e fatica. Nell’era della tecnica, la parola diventa eccedenza, ingombro, anacronismo.

Eppure, l’uso delle parole che facciamo ci rivelano – da intendere: ‘’rivelano noi stessi’’-, parlano della ricchezza e della profondità del nostro pensiero. Le parole sono noi. Non il contrario. Le parole ci rappresentano. Ora, mi pare che l’umanità abbia dimenticato la parola, l’abbia fatta precipitare in un abisso di frasi fatte, di automatismi quasi involontarî, di rantoli acronimici (se mi si passa il termine), privi di stupore, di autentico interesse per il dialogismo che una parola implica. Come non assistere con preoccupazione all’abuso della parola di chi illude il prossimo promettendogli paradisi inesistenti? Ai “come stai?” meccanici che non attendono risposta? All’ego smisurato di chi si rinchiude nella misera torre d’avorio di una tastiera, prigioniero di un odio da diffondere ai quattro venti con un “clic’’? Al “flatus vocis’’ della politica?

Dobbiamo riscoprire l’importanza della parola. La sua fatica. Paradossalmente, riscoprendo il valore del silenzio e dell’ascolto della parola dell’Altro da Sé. 

Anche qui sta il senso della vita.

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