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La democrazia impossibile

 

Non ci sono prove che Mark Twain abbia davvero scritto che “se andare a votare facesse la differenza non ce lo lascerebbero fare”. Tanto per dire che qualche speranza di poter contare qualcosa nella sacra penombra delle urne sopravvive ancora. Resta il fatto che l’idea di democrazia suscita da più di duemila anni perplessità, sospetti, dubbî. Ai suoi albori ateniesi, essa si declinava nell’improbabile assemblea, l’ecclesia, degli aventi diritto al voto che, a conti fatti, erano tutt’al più il 20 per cento della popolazione, dato che l’esercizio della democrazia non era esteso né alle donne, né agli schiavi ancorché liberi, né agli stranieri. Ed era, poi, tutto un caotico deliberare, con grida o confuse alzate di mano – ve lo immaginate: tutti accalcati su una collina! -, sulla necessità di continuare le ostilità contro Sparta o di ostracizzare il “socrate’’ di turno. Nessuna meraviglia che Platone avesse manifestato tutto il suo dissenso per questa, diciamolo pure, farsesca utopia democratica: quell’assemblea di votanti, in fondo, non erano poi così diversi dalla folla che si lascia manipolare, ancora oggi, dalla studiata mozione degli affetti di nuovi sofisti. Il paradosso è che la democrazia così intesa si prestava (come si presta ancora) alla deriva tirannica o populistica. E quell’uno vale uno non poteva che generare la stortura di decisioni non sostanziate dalla precipua conoscenza dei fatti. Tanto è serio, ancora oggi, il problema della mancanza di competenza degli elettori – non tutti, certo, quegli amanti della Filosofia e del Bello a cui pensava Pericle – che recentemente alcuni filosofi e politologi hanno pensato alla soluzione di un regime democratico fondantesi sull’episteme, cioè sulla necessità negli elettori della conoscenza della materia su cui si intende deliberare: in altri termini, in epistocrazia hai diritto di voto solamente se hai contezza fattuale di ciò su cui sei chiamato ad esprimere un giudizio. Si passerebbe, nella coscienza del cittadino chiamato all’esercizio della democrazia, dalla dimensione della doxa, dell’opinione, del sentito dire o dell’umoralità a quella epistemica di chi sa come funziona la materia che è in gioco e che può esprimere su di essa un giudizio preciso e assennato.

 

È possibile un approccio simile? Al netto della necessità di dover ripensare il nostro sistema educativo per poter generare un popolo di siffatta competenza (un’altra utopia!), pensate converrebbe alla nostra classe politica dover rappresentare cittadini di questo tipo? Mala tempora currunt…

 

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