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Il villaggio Italia e l’ammucchiata Sanremo

In un paese per tanti versi ultramoderno, quale è l’Italia, la popolazione per certe cose è rimasta fedele ai comportamenti, alle mentalità, ai sentimenti del villaggio; di quando “Berta filava…”.

I personaggi che troviamo in TV, i politici, i conduttori televisivi, i cantanti, gli artisti, i protagonisti dei fatti di cronaca nera, sono al centro del “teatrino Italia”, con la platea che discute appassionatamente di loro e dibatte accanitamente i temi del momento. Come avveniva appunto, per i personaggi e fatti locali, nei borghi e paeselli, tanti anni fa.

Che differenza con altri paesi, dove la “privacy”, il diffuso anonimato, l’individualismo, i legami famigliari e di amicizia – meno invasivi di quelli italiani – la scarsa comunicativa, e qui in Canada anche il multiculturalismo, creano un distanziamento tra l’individuo “spettatore” e i “protagonisti” investiti dalle luci della ribalta.

Nella penisola parole e fatti riguardanti i politici e i professionisti della chiacchiera e le persone famose assumono la dimensione di eventi nazionali. Sui quali, i conduttori, gli imbonitori, i giornalisti, i telespettatori, i lettori, un intero popolo sversano fiumi di chiacchiere.

Riepilogando: l’Italia, per certi versi, somiglia a un minuscolo villaggio, in cui
tutti vogliono sapere tutto di tutti, per poi parlarne con toni accesi.

Sanremo, vera capitale del Belpaese, celebra ogni anno quest’Italia esagerata, parolaia e guardona. Lo fa attraverso una cerimonia che ricorda le antiche feste orgiastiche mediterranee. Il festival, infatti, è un’ammucchiata incestuosa di protagonisti e di pubblico, in cui hanno fatto spicco, quest’anno, le più strane acconciature, i travestimenti da “drag queen”, e i corpi tatuati e seminudi.

Orson Welles sentenziò: “L’Italia conta oltre cinquanta milioni di attori. I peggiori stanno sul palcoscenico.” Agli attori, Welles avrebbe potuto aggiungere i cantanti, ma non lo fece perché la melodica canzonetta italiana aveva allora una sua identità, una sua dignità… Anni dopo arrivò il rap, sgangherato comizio moralistico-buonista-odiatore, falsamente contestatore ma di vera rot- tura. Rottura di…

Gli italiani hanno dato un contributo originale al rap: il loro “reeeep…” pronunciato “alla barese”.

Lo spettacolo televisivo italiano è un modello “sui generis”. L’imbonitore televisivo subissa di complimenti il cantante, l’artista, l’invitato di turno, che sembrano siano venuti a ricevere il premio Oscar per la bontà, la bravura e la simpatia. “Bravissimo!” e tanti altri superlativi assoluti riecheggiano senza sosta su scena…

In Francia, o in Canada, o in qualunque altro paese, l’artista invitato, dopo una o due frasi del presentatore, si esibisce in ciò che sa fare. Punto e basta. In Italia invece è tutto un parlare, con un fuoco d’artificio di complimenti mirabolanti, stratosferici, a beneficio dell’incomparabile ospite.

Il teatrino offerto allo spettatore somiglia, in altri casi, a una festicciola tra amici: si canta in maniera sgangherata, uno alla volta o tutt’insieme. Fortunato è chi sa imitare il cantante celebre.

L’imitazione è regina in Italia. Il saper imitare qualcuno o il somigliare a un noto attore garantiscono nella penisola la celebrità e, immagino, anche la felicità.

Molti nella penisola troveranno le mie critiche eccessive. Dovrebbero andare a vivere in un qualunque paese, anche del terzo mondo, ed accendere qualche volta la Tv locale, per provare vergogna poi, rientrati in Italia, di questo grottesco, fastidioso parlare urlato televisivo, e di queste fasulle bordate di complimenti che si riversano come melassa sull’invitato di turno; trattato come se fosse la reincarnazione di un eroe leggendario, riapparso per miracolo su terra.

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