Il documentario di Félix Rose “La bataille de Saint-Léonard” ci ripropone lo scottante tema, negli anni 1960’, della lingua d’insegnamento nelle scuole del Québec e della scelta maggioritaria fatta dai figli degli immigrati italiani, prima che la legislazione intronizzasse il francese quale lingua ufficiale e prioritaria. Su questo tema i franco-quebecchesi ci ripetono all’infinito l’accusa di aver rifiutato, noi immigrati italiani, le scuole francesi. Il che è solo in parte vero.
Il punctum dolens, mai riconosciuto dai franco-quebecchesi e su cui gli stessi studiosi tendono a sorvolare, è invece: “il rifiuto delle scuole francofone opposto agli immigrati, costretti quindi a iscrivere i loro figli nelle scuole anglofone. Quattro dei nostri testimoni parlano di questo fenomeno”. (Flora de Jouvencel: “De la Molise à Montréal. L’émigration dans le contexte d’après-guerre : le cas particulier du village de Jelsi.”)
Tra le tante altre testimonianze da me udite circa le ragioni della scelta della lingua, se l’inglese oppure il francese, del corso di studi verso cui gli immigrati indirizzavano i figli, trovo molto significativa quella resa dall’industriale Nicola Di Tempora nella sua biografia “Se puoi sognarlo, puoi farlo”: “La scuola più vicina a casa nostra era quella francese. Ma ci hanno rifiutato. Sarebbe stato un freno all’apprendimento degli altri. Non sapevamo il francese e imparare la lingua in classe avrebbe richiesto, secondo loro, troppo tempo”.
In un’altra occasione ossia in un discorso che Nick Di Tempora, divenuto un imprenditore di gran successo negli USA, terrà a Montréal io lo udirò felicitarsi con ironia e sarcasmo per quel lontano rifiuto scolastico subito da lui, e per il clima ostile che la maggioranza della popolazione riservava allora agli immigrati italiani; perché ciò fu la causa della sua fortunata decisione di andare a vivere e a lavorare negli USA. Dove le sue capacità imprenditoriali ed umane si estrinsecheranno in maniera ammirevole, grazie anche al sistema americano degli affari e nella vita: aperto, pragmatico, dinamico.
Io ho udito la stessa affliggente storia innumerevoli volte: le domande d’iscrizione alle scuole del sistema educativo cattolico francese, provenienti da italiani appena arrivati, erano spesso respinte. E quindi questi giovani figli d’immigrati intraprendevano gli studi in una scuola del sistema educativo inglese, il quale invece aveva aperto loro le porte.
Padre Dino Fruchi, che oltretutto finì col diventare un nazionalista “francese”, e addirittura un separatista, mi disse testualmente: “Vuol sapere perché gli italiani hanno cominciato a parlare inglese? Perché erano mal visti dai francesi. Non si sentivano accettati: le scuole canadesi-francesi non volevano accettare alunni italiani”.
Ebbene, nelle pagine e pagine consacrate in Québec al problema della scelta della lingua d’insegnamento, se l’inglese o il francese, da parte degli immigrati, non una sola volta ho trovato l’ammissione di questo monumentale errore commesso dai “francesi”, come noi eravamo soliti chiamarli (e che in origine erano i “Canadiens”, divenuti “Franco-canadiens”, e quindi “Franco-québécois”, e infine “Québécois”, e per noi “Quebecchesi”).
I “Francesi” non sono disposti ad ammettere altri torti se non quello di essere stati nei secoli “troppo buoni”. Ciò fa parte di un particolare tratto della loro indole, incentrato sul vittimismo; tratto che appare evidente a chiunque li conosca in profondità. E che non viene smentito neanche in relazione al “tema lingua”: la colpa è sempre e solo degli altri. Specie poi quando gli altri non sono che “des Italiens”. Quindi gente che non merita prendere troppo sul serio.