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Il nuovo governo italiano. Le scelte linguistiche

Giorgia Meloni è stata fatta bersaglio di critiche per la sua preferenza per l’articolo maschile: “il” presidente. Preferenza giudicata da molti anti-grammaticale. Michela Murgia: “Bisognerebbe chiedere a Giorgia Meloni per quale motivo ce l’ha con la lingua italiana. Perché ‘il presidente’ ha il suo femminile che è ‘la presidente’, quindi non è che si può arbitrariamente decidere quale parte della grammatica italiana rispettare e quale parte no. Quindi non è questione di femminismo, è questione di parlare la nostra lingua”.

 

In realtà tale scelta linguistica, fatta valere all’inizio – ma poi rientrata: la Meloni lascia libertà di scelta – a favore degli articoli e dei pronomi maschili per la propria carica, non viola la grammatica. Per il linguista Salvatore Claudio Sgroi, il maschile non fa alcun riferimento al sesso maschio/femmina del titolare della carica: “I due usi del sostantivo maschile e femminile sono quindi entrambi previsti dalla grammatica, entrambi corretti e, aggiungiamo, entrambi “ideologici” (…) ovvero di opposta ideologia”. Anche il Presidente dell’Accademia della Crusca, Claudio Marazzini, va nello stesso senso: “Chi preferisce le forme tradizionali maschili ha comunque diritto di farlo”. Anche qui si allude a una presunta scelta ideologica di Giorgia Meloni.  E molti le hanno rivolto accuse velenose, per questa sua scelta “ideologica” giudicata antifemminista.

 

Inutile dire che la Boldrini e le altre femministe dal carattere fortemente virile hanno condannato la scelta di Meloni. Il sindacato Rai ha minacciato addirittura sanzioni per chi in Rai oserà servirsi del maschile rivolgendosi alla presidente. Ma prima di lei nel passato tante altre donne, in casi simili – la stessa Nilde Jotti, comunista – hanno propeso per il genere maschile della loro carica. Da ciò si deduce che l’accanimento contro la scelta grammaticale della Meloni è in realtà espressione di un livore politico-ideologico antidestra e anti-Meloni. Anche noi, italiani all’estero, siamo contro certe scelte ideologiche che avvengono in Italia in campo linguistico. Conoscendo l’inglese per averlo dovuto imparare dal vivo, noi troviamo non solo ridicolo ma avvilente che i giornali e la Rai e la Televisione ricorrano a parole ed espressioni inglesi che sono talvolta errate e ancor più spesso inutili.

 

Questo gergo da eterni sciuscià ci copre di ridicolo. Io sono contro la step-child adoption. Ma sono ad essa contrario soprattutto per questo uso balordo di termini inglesi. E cosa dire di “smart working”? La cosa sorprenderà molti in Italia, Draghi incluso che l’ha usata erroneamente, ma “smart working” è un’espressione sbagliata nella maniera in cui gli italiani se ne servono. Anche “rider” per ciclo-fattorino, “writer” per graffitaro, “badge” per tesserino, sono termini inappropriati. E non sono i soli. Ve n’è una caterva.

 

Speriamo che il nuovo governo rinunci ad usare l’inglese per designare leggi, decreti, misure e programmi. Penso che bastino ed avanzino il welfare, la social card, il social act, il family act, la spending review, il question time, il migration compact, l’election day, e via enumerando. I termini di questo italianese in costante crescita deliziano invece la gola dei nostri sciuscià, ossessionati dal “suona bene”, ma che si gargarizzano, compiaciuti, con questi suoni cacofonici.

 

La sfilza di termini inglesi, usati in Italia, ci ridicolizza all’estero presso coloro che vogliono imparare l’italiano, attratti dalla bellezza della nostra lingua, ma che, increduli e sorpresi, si imbattono poi in flop, jackpot, in tilt, killer, gossip e in altre piacevolezze degne dei comici di un avanspettacolo di provincia. Paradossalmente io accetto invece con gioia il “Made in Italy” annunciato nel programma del governo. Il “made in Italy” è insostituibile anche per me, perché è una scelta “ideologica” fortemente filoitaliana.

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