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Il gioco della guerra e il Natale

Non c’è bambino che non abbia passato momenti della sua infanzia intento a immaginare di sconfiggere eserciti nemici con tanto di rumorose incursioni aeree, studiati lanci di granate e missili, infiniti corpo a corpo, magari fingendo egli stesso di soccombere sotto i colpi dell’avversario. Il gioco della guerra esprime una pulsione insopprimibile nella nostra natura. Più generalmente, possiamo riconoscere che l’umanità trova nel gioco il punto di fuga da una realtà avvertita in tutta la sua limitatezza; noi giochiamo, così come creiamo, perché abbiamo dentro un impulso alla fuga, perché siamo alla ricerca di qualcosa che ci trascenda e ci metta in contatto con un oltre che la sola strumentazione del logos non può rappresentare. Ludo, ergo sum. Ma perché, sin dall’infanzia, questa spinta a un sia pur giocoso combattimento? Non credo che nel grido tribale del bimbo in agguato mortale al soldatino di cartapesta si possa ritrovare quell’idea di pólemos a cui pensava Eraclito quando vedeva nel conflitto “il padre di tutte le cose’’, quella forza estrema e necessaria nella ristrutturazione di una realtà avvertita nella sua imperfezione. Nell’entusiasmo del bimbo che gioca alla guerra deve esserci qualcosa di più profondo e nascosto. In quel suo divertimento ad annichilire l‘Altro, – e come non pensare anche all’adolescente alle prese con sofisticati videogiochi di sanguinose stragi virtuali? – c’è, semmai, l’idea di stásis, di una pulsione distruttiva che non ha niente a che vedere con la logica riorganizzativa della guerra tra stati, ma che rinvia al thanatos freudiano. La guerra, ahimè, vive dentro di noi. È il sintomo di un caos che ci appartiene, che ci è consustanziale, una spinta inconscia all’autoaffermazione che troppo spessa straripa nell’autodistruzione. 

 

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Eppure, con l’approssimarsi del Natale, questa pulsione al conflitto sembra trovare un’inattesa tregua, come se un’energia contraria emergesse per bilanciare l’istinto alla distruzione. Le luci che  rischiarano le città, i canti che riecheggiano nelle chiese e nelle strade, i gesti di condivisione e di generosità ci spingono a riscoprire un’altra dimensione dell’umano: quella dell’unione, della pace e della solidarietà. Non è un caso che proprio durante la Prima Guerra Mondiale, in occasione del Natale del 1914, si sia verificato l’episodio straordinario della Tregua di Natale, quando soldati di opposti schieramenti lasciarono le armi e si incontrarono nella terra di nessuno per scambiarsi auguri, doni. Come dire che, al di là delle nostre pulsioni distruttive, c’è anche un’aspirazione profonda alla riconciliazione. Forse è per questo che il Natale, con il suo carico simbolico di nascita e rinnovamento, ci invita a sospendere per un momento la stásis interiore e a dare spazio a qualcosa di più grande: il desiderio di una pace autentica. Non si tratta di un semplice “cessate il fuoco”, ma di un’occasione per riflettere sul senso ultimo della nostra esistenza e sul nostro rapporto con l’Altro. E così, mentre il bambino accantona per un istante i suoi soldatini per stringere un regalo tra le mani, o l’adolescente spegne la console per cenare con la famiglia, il gioco della guerra cede il passo a un altro gioco: quello dell’incontro, della condivisione, dell’empatia. È un equilibrio fragile, certo, che dura solo il tempo delle feste. Ma forse, in quel breve spiraglio di armonia, possiamo intravedere un modello diverso di convivenza, una tregua non solo tra eserciti, ma tra le forze opposte che abitano il cuore dell’uomo.

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