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Il “fake english” dei cittadini del mio Stivale

Nell’articolo “Italians have embraced ‘fake English’” (F.T., 4 ott. 2023), la corrispondente del Financial Times a Roma, Amy Kazmin, mette in evidenza la strana infatuazione degli italiani per il “fake English” o “inglese farlocco”. Un esempio tra i tanti: i distributori automatici di bibite e merendine delle stazioni ferroviarie italiane sono chiamati “self-bars”.

L’inglese maccheronico dei cittadini del Belpaese suscita l’ilarità della giornalista americana. Kazmin descrive il momento in cui, in un passato ormai lontano, udì in Tv Adriano Celentano cantare, a ritmo di rock, la canzone “Prisenclinensinainciusol”, fatta di una lingua torrenziale inventata [“grammelot”] carica di fonemi pseudo inglesi, e in cui la sola espressione intelligibile era “All right!” ripetuta alla fine di ogni strofa. Il nostro Celentano, che allora aveva uno stile alla Jerry Lewis, con quella canzone consacrò musicalmente il “fake English”, “Made in Italy”, che al contrario degli altri prodotti “made in Italy” meriterebbe solo pernacchie. Nella penisola, invece, se ne beano felici.

Amy Kazmin fa sapere al lettore che “L’infatuazione degli italiani iniziò nella seconda Guerra mondiale, allorquando le truppe USA liberarono l’Italia dai fascisti.” La linguista Licia Corbolante spiega alla giornalista americana: “Se tu usi l’inglese, trasmetti modernità, stile, progresso tecnologico, e in un certo senso, status”. È doveroso ma triste ricordare che i primi a scimmiottare la lingua dei conquistatori furono i nostri “sciuscià”, ossia i lustrascarpe.

Nel governo dell’ “underdog” Meloni, come questa si è definita, vi è stato un tentativo d’imporre la lingua italiana nelle comunicazioni rivolte al pubblico, attraverso un disegno di legge che sanziona con pesanti ammende chi faccia ricorso a termini inglesi. Ma – preciso io – da allora non si è sentito più parlare della cosa. Inoltre l’opposizione ha immediatamente subissato di accuse il pericoloso “sovranismo” dell’attuale governo. E non si è persa l’occasione per ricordare la censura fascista contro le parole straniere, l’uso del voi al posto del lei, e le tante altre nefandezze di un fascismo perennemente in agguato.

 

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Da “Prisenclinensinainciusol” ad oggi l’anglo-italiano, o italianese, si è grandemente diffuso entrando in TV, nella case, nelle stanze del potere, nelle redazioni dei giornali, persino in Parlamento. La lista delle tante parole inglesi che hanno preso il posto di validissimi termini italiani non fa che allungarsi. I nostri Jerry Lewis sono divenuti un esercito in un Paese ormai sbracatamente spalancato agli sgangherati suoni di un inglese all’amatriciana.

I governi di un’Italia, nata dalla Resistenza, hanno opposto resistenza alla lingua dei padri considerata troppo nazionalistica, non esitando quindi a far ricorso all’inglese per designare leggi, attività, settori, attività, programmi, realtà amministrative. La giornalista, divertita, cita “Stepchild adoption”, “Jobs Act”, “Hotspots”, “Click Day”, “Made in Italy”, “Smart working”…  Al che io aggiungo “Question Time”, “Stalking”, “Welfare”, “Social card”, “Green pass”, “Welfare”, “Flash mob”…. Il fondo fu toccato quando la Marina militare italiana usò l’inglese – “Join the Navy” – per incoraggiare i giovani della penisola ad arruolarsi.

C’è da sperare che l’attuale governo non persista in questa umiliante tendenza (“trend” per i nostri italiani dello Stivale).

 

Noi italiani espatriati siamo particolarmente sensibili alle questioni di dignità collettiva. Sensibilità che invece manca, si direbbe, ai nostri compaesani della penisola. I quali si credono progressisti e cosmopoliti, mentre si rivelano, con questa loro smodata passione per il “fake English”, dei ridicoli provinciali esterofili, che all’estero suscitano una normale reazione fatta di ilarità e sberleffi.

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