Si pensa che una delle più fulgide espressioni del coraggio sia quella di riuscire a scorgere, anche nelle situazioni più disperate, un lontano chiarore d’alba in grado di condurci, magari anche miracolosamente, all’uscita di qualche tunnel esistenziale. “Tutto andrà bene’’. Già. Ma è davvero questo, il coraggio? E se, invece, voler vedere quel baluginìo fosse il segno di una dissimulata codardia? Sarebbe come se si volesse, a tutti i costi, concepire e inventare quel bagliore perché, tutto sommato, non si ha il coraggio di guardare in faccia la realtà. Ed accettarne stoicamente la disperanza. L’angoscia. Ché in fondo, cos’è quell’alba scialba tanto desiderata, quasi forzosamente studiata, se non il sintomo di una cecità dell’animo? Mi sovviene un’opera di Edvard Munch, “Sera sul viale Karl Johan’’; osserviamoli, i “coraggiosi’’ medio-borghesi di una qualsiasi città del nostro occidente industrializzato, spettrali e intruppati nello struscio vespertino del mercificarsi, agghindati e convinti di fuggire dalle pastoie del nonsenso dell’esserci, gli occhi sbarrati di chi, molto probabilmente, non sa nemmeno di avere il Nulla dentro. Sono forse loro gli eroi? E se, invece, ad offrirci la vera espressione del coraggio fosse la figura anonima d’uomo sullo sfondo di questo dipinto, le spalle al gregge di quei morti viventi, rivolto alle luci sinistre di edifici che sembrano un Leviatano di quella spocchiosa transumanza? In altri termini, se il coraggio non fosse tanto la ricerca disperata di una via di fuga, quanto l’accettazione piena e lucida della propria condizione? Il coraggio non è rifiutare di osservare ciò che ci circonda e crogiolarsi in un intervento provvidenziale ma, semmai, scegliere di abitare la propria disperazione.

La libertà comincia dall’accettazione dell’angoscia e nella possibilità di reinventare noi stessi, di farci progetto nell’infinita possibilità dell’essere al mondo. Bisogna danzare con il Caos, ci ricorderebbe Zarathustra. Guardiamo ai nostri giorni. Sono tempi di crisi, questi, ne conveniamo tutti. È davvero “coraggio’’, pensare che “tutto andrà bene’’? Che le guerre finiranno con un’ennesima minaccia o con l’invio di nuove armi mortali? Che la politica, solo con un tratto della penna nelle urne, si farà davvero “téchnē’’ al servizio della polis, e non ancora una volta strumento di mero esercizio del potere? Credo nella necessità di ristare in noi stessi (lo preferisco a “restare’’ perché mi sembra amplifichi, ristare, il senso che intendo dare alla parola), di disattivare meccanismi stantii del nostro operare e riscoprire una nuova potenzialità dell’agire. Tutto questo partendo dal cul de sac in cui ci troviamo. Senza disconoscerlo. Accettandolo con il coraggio del pensare la disperanza. E di lì, andare avanti. In un autentico cambiamento.