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Filosemita o antisemita. Tertium non datur

L’intellettuale israeliano Etgar Keret aveva osato ricorrere al termine “pogrom” per i fatti di sangue avvenuti nel villaggio palestinese di Hawara, e di altri villaggi vicini, presi d’assalto, la notte del 26 febbraio 2023 (quindi prima dell’attuale guerra iniziata da Hamas), con pietre e bottiglie incendiarie da centinaia di coloni ebrei che, appoggiati dai soldati, avevano messo a fuoco e devastato decine di case, distrutto automobili, picchiato e ferito gli abitanti, e causato un paio di morti. E ciò, occorre precisare, in seguito all’uccisione di due israeliani.   Gli era stato obiettato che la parola «pogrom» vale esclusivamente per le violenze contro gli ebrei.  Da qui il suo augurio, espresso subito dopo quegli eventi (anteriori al feroce attacco degli incursori di Hamas contro civili inermi in territorio israeliano):  “In questi giorni angosciosi, in Israele e altrove nel mondo, in un’epoca di conflitti e odio tra fazioni opposte, se fossimo almeno capaci di usare le stesse parole per definire certe cose, ecco, basterebbe questo per accendere un barlume di speranza. (…) Oggi ci sono membri di questo governo estremista che non sono disposti neppure a condannare l’eccidio [di Hawara]. Ma riusciremo almeno a trovare un nome per definire questa tragedia?”   La sua è una vana speranza, a causa della connotazione esclusivista di certi termini a carattere quasi religioso o comunque dogmatico, contro cui non sono ammessi,  in Occidente, né agnosticismi, né eresie, né revisionismi linguistici.  Antisemitismo, Olocausto, Shoah sono termini sacrali che danno un’enorme forza morale e politica agli ebrei. L’accusa di antisemitismo è un’arma usata anche contro chi osi dire qualcosa che non sia di incondizionata beatificazione degli ebrei. Ad antisemitismo, parola citatissima, si dovrebbe poter contrapporre “filosemitismo”, termine invece assente nel nostro vocabolario. Eppure, in Occidente, il filosemitismo è la regola.   Nessuna analisi critica degli eventi, nessuna contestualizzazione, nessun “Sì però…” sono permessi nei confronti degli ebrei, anche se avvengono non certo per giustificare le innegabili persecuzioni da loro subite, ma per porle in un contesto storico. Su chi ha voluto farlo, ad esempio su A. Solzhenitsyn, autore di “Due secoli insieme, 1795-1995, è calata la mannaia dell’accusa di antisemitismo.  Tutto ciò si spiega, è bene ribadirlo, con le tremende prove subite dagli ebrei, popolo ramingo, nel corso della storia. Ma io giudico opportuno sottolineare il carattere biblico di termini come Shoah e Olocausto, usati al posto di massacro, genocidio, tentato genocidio… E si dovrebbe poter anche giudicare strana l’assenza di una parola appropriata che identifichi lo spirito di esclusione, di isolazionismo, di differenzialismo, di etnocentrismo che in genere caratterizza gli ebrei; vedi anche il matrimonio endogamico colonna portante della loro identità di popolo.  Questo spirito di differenziazione e direi di esclusione (“distinzione e divisione” lo chiama Benedetto Croce) è dettato da un senso di superiorità di storia, di valori, di destino, di cultura, di genealogia, di identità, e in definitiva di DNA nei nostri confronti. Ciò giustifica agli occhi di molti l’impunità goduta dai coloni degli insediamenti illegali, e che Etkar Keret ha invece denunciato.   Pochi si rendono conto del condizionamento che noi subiamo attraverso certi termini a carattere ormai sacro a loro consacrati, e a causa dell’inesistenza di altri termini, giudicati invece intrinsecamente inutili e quindi mai adottati, come ad esempio “filosemita” e “filosemitismo”, che invece, secondo me, sarebbero utili per chiarire, talvolta, il  discorso su di loro. Ma è un discorso che va fatto  con grande circospezione, e rispettando i termini ineludibili di questo vocabolario consacrato, altrimenti ci si espone alla paralizzante accusa di “antisemitismo”.

 

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