Aristotele non teneva in alta considerazione l’istituto famigliare; nella sua Etica Nicomachea, il grande filosofo guardava alla famiglia con un certo sospetto, temendo che in essa non si potesse stabilire la philìa, cioè quell’amicizia tra individui legati da un rapporto di autentica uguaglianza. Il corollario che ne scaturiva era che il bene generale della polis non poteva coincidere con quello particolaristico dell’oîkos famigliare, di quel vicus della latinità con cui si intendeva ogni aggregato civile isolato dall’insieme della città. Eppure, generalmente, è pur sempre nel contesto famigliare che un individuo muove i primi passi e riceve i primi stimoli alla socializzazione. Nessuna meraviglia, allora, se il problema del rapporto tra famiglia e società civile si riveli di estrema importanza, specie se pensiamo a certe strutture psicologicamente alienanti all’interno della famiglia e a quanta influenza negativa esse abbiano su istituzioni importanti del nostro vivere insieme, come il mondo dell’educazione, della politica, della fede, della salute e via discorrendo.
Oggi, poi, quell’amicizia malata tra genitori e figli sembra ritardare, quando non liquidare del tutto, il processo di emancipazione filiale attraverso il quale ci si dovrebbe liberare del giogo genitoriale, come vorrebbe Freud. Insomma, tra imposizioni patriarcali del passato e lassismo dei nostri tempi, lo sguardo aristotelico non muterebbe: la famiglia continuerebbe a rappresentare un ostacolo al bene della polis. Sono profondamente convinto che la pericolosità della dimensione privatistica del nucleo famigliare giustifichi un intervento deciso e forte del mondo dell’educazione; soltanto la famigliarità aggiunta della scuola, il suo aspetto collante (Lacan giocava sulla contiguità fonetica tra le parole école et colle) può scongiurare il pericolo di una pseudo-società di individui non consapevoli dell’importanza di vivere insieme. La scuola ha il dovere di contribuire a realizzare ciò che David Cooper chiamava nel suo “Morte della famiglia’’ il maternage e il paternage nei confronti di un individuo, più che una presenza di meri padri e madri biologici: solo questo determinerebbe una crescita della personalità che conosca la necessità di una sana interazione con l’Altro da Sé. Questo non significa mettere in secondo piano il ruolo della madre e del padre. Significa, semmai, comprendere che bisogna superare una certa idea della famiglia che risulti essere nemica del consesso civile, che troppo spesso nasconde desideri e progetti che non fanno gli interessi reali di un figlio e del suo inserimento nella collettività. Mi trovo spesso a pensare che dovremmo imparare tutti ad esser madre. Tutti.