Una differenza fondamentale tra noi immigrati italiani e i quebecchesi può essere ravvisata nel nostro gusto per la comunicazione e per la lingua – che sia il dialetto o l’italiano – e nella predilezione dei quebecchesi per l’introspezione e il silenzio, nonché nel loro scarso rispetto per la lingua materna – il francese – che le masse e anche l’élite parlano quasi sempre male. Tutto ciò è detto da me senza cattiveria, ma con una punta d’amarezza e anche di rabbia, visto che chi ha imparato il francese in Québec non è mai sicuro della correttezza delle frasi che sente continuamente ripetere, e che ha imparato con tanti sforzi ad usare. È paradossale, inoltre, constatare che un movimento nazionalista, il quale fa leva sulla necessità imprescindibile di salvaguardare la lingua francese, non si interessi minimamente alla scarsa qualità di questa ed anzi si dichiari orgoglioso di una parlata locale spesso povera e imprecisa.
Ma criticare la qualità del francese del Québec costituisce un atto di lesa maestà, che ferisce al cuore i quebecchesi, dominati nei confronti della lingua da un fortissimo complesso. Ed infatti un mio articolo, di cui ritrascrivo la prima parte qui di seguito, suscitò la reazione persino di Pierre Foglia del giornale “La Presse”, che mi prese in giro attribuendomi la fatuità di un parruccone snob.
Ed ecco cosa scrivevo in quei lontani anni in un articolo dal titolo: “Parlare poco, parlare male”.
“ ‘On est six millions, il faut se parler!’. Nessuno altro slogan riguardante il Québec è più pertinente di questo. A mio avviso, l’invito a parlare rivolto alla popolazione della Bella Provincia deriva da un fatto molto semplice: i franco-quebecchesi non parlano abbastanza. Certo, qualche cosa la dicono, ma ne dicono una là dove un francese o un italiano, un greco o uno spagnolo ne direbbero dieci”.
“Il quebecchese ama tacere. L’uomo della strada, se parla, lo fa per comunicare qualcosa di pratico, e quindi smette. Si direbbe che l’ideale per lui sia di rimanere in silenzio. Tante volte ho notato nell’autobus e nella metropolitana coppie di amici, di fidanzati, una madre con il figlio, seduti l’uno accanto all’altro. Ma senza parlare; lontani, introversi, assorbiti dal proprio universo”.
“ ‘Ma che avete voi italiani da parlare tanto tra voi?’ mi chiese con una punta di cattiveria un collega, durante uno dei ricorrenti periodi d’euforia ipernazionalistica che investono la nostra provincia e in cui ‘les Italiens’ sono presi a bersaglio perché visti come una palla al piede del progresso umano. Gli risposi: ‘A noi succedono tante cose interessanti, e le raccontiamo con piacere ai nostri amici. Vuoi che ti racconti quello che mi è successo proprio ieri?’. Non volle, probabilmente perché temeva di dover a sua volta raccontarmi qualcosa, e non avrebbe saputo cosa dirmi”.
“Il quebecchese ‘pure laine’ non ama la verbosità. Se proprio deve ‘narrare’, lo farà da seduto, a tavolino, tra un sorso di birra e l’altro. Una cosa poi eviterà a tutti i costi di fare: infervorarsi, alzare il tono, polemizzare con l’interlocutore”.
“Procediamo a un test: mettiamo assieme, in un qualunque paese, tre o quattro amici. Assisteremo ad uno scambio d’idee, ad un po’ di humour, a qualche risata e, dopo un po’, ad una bella discussione. Nel Québec, invece, mancherà la discussione”.
“Un frutto certamente piacevole di questa propensione al silenzio e ai toni sommessi, caratterizzante i discendenti dei ‘coureurs de bois’, è il loro gusto pronunciato per la musica. Il Québec è zeppo di talenti musicali. In Italia sono tutti impegnati a parlare… Ecco: nella patria della partitocrazia e della logorrea, a forza di urlare, finisce che ogni tanto emerge un buon tenore”.