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Dell’insignificanza del tempo

 

In uno dei quadri più famosi di Salvador Dalì, La persistenza della memoria, mi sembra si possa ritrovare tutta la relatività della percezione che, generalmente, si ha del Tempo. In quegli orologi, quasi liquefatti come formaggi al sole, sospesi alla nudità di un ramo o bilicanti da un tavolo, quando non aggrediti dall’iperattività di un nugolo di formiche, si potrebbe vedere tutta l’indifferenza di Dalì per una dimensione, quella del Tempo, che sembra venir disarcionata dall’Essenza delle cose. Queste sembrano protette idealmente da un’Eternità che nessuna sabbiosa clessidra potrebbe mai minacciare. Si ha la sensazione che, a far da contraltare alla desolazione della rappresentazione pittorica di Dalì, e quasi a voler respingere il profumo di Morte che si respira nell’osservazione di quella calma oggettuale, vibri nel quadro, paradossalmente, un anelito a superare la Morte stessa, facendo del Tempo un che di indifferente all’eternità intangibile delle cose. Si tratta di un’idea di eterno che va ben al di là di una realtà ultraterrena di matrice fideistica. Il Tempo, quindi, non sarebbe altro che la mera oggettualizzazione di un’Essenza delle cose che nulla può distruggere. Dalì offre l’idea di un’Arte che celebra questa Eternità, facendo della persistenza della memoria un antidoto per ogni disfacimento, evaporazione o scomparsa delle cose. Questa indifferenza di Dalì per il Tempo mi fa pensare alla singolarità di un radicale molto interessante del verbo essere: – fu. Esso, infatti, appare non solo nell’idea di futuro, ma anche in quella di passato: fui. E se pensiamo che questa radice rinvia anche a quella di Natura (in greco phy), si capisce come l’Essere si alimenti proprio di questa intemporalità, di questa continuità dell’esserci delle cose che non può venire meno.

Mi permetto di citare un paio di versi in una pagina del mio “Il Corpo del Silenzio’’ (2021, ed. EdiBom):

fui-futuro: la relatività

di una radice che trapassa il tempo

 

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