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Della malattia necessaria

 

Qualche settimana fa, andando a sfogliare elettronicamente i risultati di alcuni miei recenti esami clinici, scopro una parola che m’è parsa bellissima: amilasi. Bella, come per me tutte quelle che hanno suffissi che inducono ad addolcire la “s’’ e a darle quel sibilo appena accennato, quasi onirico (m’invento un endecasillabo: “…e quasi rimasi invaso dall’estasi’’. Suona bene, no? Vabbè, questo è un altro discorso). Comunque, la parola era amilasi. Sennonché, dopo il lampo della fascinazione fonetica iniziale, scorgo accanto a questo termine un aggettivo inquietante, di quelli che incutono terrore solo a masticarlo nella bocca: pancreatica. In italiano, un cluster consonantico che veda in gioco la ‘’r’’ con un’altra consonante (la t, la c, la p, etc.) sembra generi uno stridìo preoccupante, forte, quando non angosciante. Ed è stata proprio l’angoscia, il sentimento provato nell’osservare, accanto ad ‘’amilasi pancreatica’’, l’icona di una bandierina rossa, come quelle che sventolano sulle spiagge quando il mare si sveglia con la luna storta, per giunta con una specificazione, ‘’alta’’ a trasformare una mia bella giornata di sole in un oscuro presagio. “Signor Thoma, Lei ha l’amilasi pancreatica alta’’ , ho quasi sentito risuonarmi dentro le viscere con una voce grave e metallica.  E così, in un attimo, il mondo mi si è capovolto.

 

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Quella bandierina rossa, quell’ “alta” accanto a una parola che fino a poco prima mi suonava melodiosa, ha trasformato la mia esistenza in un labirinto di domande. Non ero più io, ero un corpo che poteva tradirmi, una macchina fragile, un orologio forse alle soglie dell’ultimo battito. Nei giorni in attesa di quell’esame radiologico approfondito che avrebbe scongiurato il peggio (per il momento), sono stato travolto da emozioni forti, con il profumo acre del limite, dell’abisso. Poi, una strana lucidità, quella che dovremmo sempre possedere: non siamo eterni. Siamo destinati alla polvere. Certo, forse a dimensioni altre. Comunque, ad un passaggio di consegne. La Grande Bellezza della Vita risiede nella nostra transietà. C’è qualcosa di paradossale nel modo in cui la malattia ci costringe a guardare il mondo. Ci spoglia delle certezze, ci strappa via il velo dell’illusione, e ci lascia nudi di fronte all’essenziale. E così, quello che fino a ieri trascuravamo, come l’inizio di un nuovo giorno, uno scoiattolo danzante su un filo, il nostro stesso respiro, tutto quell’universo di insignificanti  si tinge di miracolo. E capiamo che non è la Morte che dobbiamo temere, ma il non aver vissuto. In fondo, per dirla con Rilke, ‘’…la bellezza non è altro che l’inizio del terrore, che siamo appena in grado di sopportare’’.

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