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Colpe collettive e reciprocità

Israeliani vs Palestinesi

 

“Sono troppe nelle ultime ore le voci che denunciano che a Gaza i feriti non vengono soccorsi, che morti e feriti sono lasciati insieme fra le macerie. E molti sono bambini! Occorre avere il coraggio di fermare Hamas, ma occorre avere il coraggio di alzare la voce e di dire ad Israele che non è questa la strada che la porterà a vivere in pace e sicurezza. Così come questa non è la strada che porterà i palestinesi a vivere con dignità in uno stato senza più occupazione militare, libero e sovrano, ma che è stato ridotto alla fame” .

 

Queste righe sono tratte da un articolo, “Gaza: difesa o massacro?”, pubblicato dalla rivista “Intervento nella Società, gennaio/marzo 2009 e di cui è autore don Gianni Toni.  Avete letto bene: gennaio/marzo 2009. Questa denuncia è quindi ben anteriore al 7 ottobre 2023, data indicata da molti come la causa e l’inizio dello spargimento di sangue in atto nella martoriata Gaza. 

 

Lo spaventoso conflitto in Palestina mette in evidenza un principio su cui è utile riflettere: la reciprocità, ossia il voler restituire ciò che si è ricevuto. Natanyahu fa bombardare la popolazione palestinese senza fare troppe distinzioni. Vuole restituire, con gli interessi, la morte e il sangue che i terroristi di Hamas hanno inflitto agli israeliani con la loro feroce mattanza di un giorno. I combattenti di Hamas, da parte loro, intendono restituire il dovuto per le morti, le umiliazioni e i tormenti subiti dai palestinesi nel corso degli anni. Reciprocità, in questo caso, vuol dire anche vendetta. Il legame collettivo che esiste all’interno di una Nazione, o anche di una comunità, di una collettività, di un gruppo, con una storia distinta è fonte di un’encomiabile solidarietà tra i membri del gruppo, ma alimenta l’avversione che i membri del gruppo provano per le entità collettive nemiche.

 

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Gli ebrei della diaspora potevano vivere, nei paesi che li accoglievano, secondo la propria Legge e i propri costumi. Essi rifiutavano l’adesione ai valori storici della terra che li ospitava e rigettavano per la propria comunità gli usi e i costumi locali.  Gli israeliani, oggi, violano il principio di reciprocità, a casa loro, nel loro Stato esclusivista, che è a carattere etnico religioso. Ha scritto l’intellettuale israeliano Avraham Yehoshua: “Nelle nostre relazioni con le nazioni del mondo, noi violiamo un principio di reciprocità”. Se infatti le altre nazioni avessero associato nel passato, quando noi ci rifugiavamo da loro, “una appartenenza religiosa ad una appartenenza nazionale specifica, [il normale processo d’integrazione e quindi d’assimilazione veniva rifiutato dagli ebrei, in perenne attesa di tornare a Gerusalemme]  l’identità nazionale specifica del paese da cui venivamo accolti, noi non avremmo avuto modo di esigere uno status civico e nazionale tra loro, e tutti gli ebrei avrebbero dovuto abbandonare la diaspora e tornare in Israele”. 

 

La mancanza di misura dimostrata da certi dirigenti d’Israele, vedi Netanyahu, nei confronti dei palestinesi, spesso trattati come se appartenessero ad un’umanità inferiore, rischia di avere una grave ripercussione sull’enorme capitale morale che gli ebrei hanno accumulato in Occidente quali membri di una comunità vittima nei secoli e nei millenni di un odio inspiegabile rivolto contro di loro, il fatidico antisemitismo. L’antisemitismo, secondo la Doxa, farebbe parte del nostro DNA. Ebbene, la storia degli ebrei, nati per essere sempre e solo vittime, rischia di subire un riesame alla luce di questi tremendi eventi. I quali ci dimostrano, stando al trattamento fatto subire alla popolazione palestinese, che gli ebrei non sono poi tanto dissimili da noi, non ebrei.  E spero, poiché li assimilo a noi, di non essere accusato di revisionismo o di antisemitismo: accuse che fanno ancora paura. 

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