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In difesa della lingua italiana

Vi segnalo un fatto incredibilmente ridicolo: la Camera dei deputati risponde in inglese a chi si dichiara contento del progetto di legge presentato da Fabio Rampelli che mira a fare dell’italiano la lingua obbligatoria delle istituzioni italiane nei loro rapporti con il cittadino italiano. Ecco infatti il messaggio che ho ricevuto dopo aver inviato alla Camera dei deputati un messaggio di sostegno alla proposta di Rampelli.

“We confirm that your message with object: Trasmesso via sito – La difesa della lingua nazionale, sent on at 14:50 has been successfully registered.”   

Più d’uno nella penisola ravviserà in questa difesa della lingua italiana un’involuzione di sapore autarchico, nazionalistico e pericolosamente nostalgico. E criticheranno la mia posizione “nazionalistica” quelle persone che trovano sciovinisti e ridicoli i francesi, i quali insistono nel chiamare “ordinateurs” non solo i loro ma anche i nostri computer. Gli italiani, da “cittadini del mondo” – invero un po’ speciali perché vanno in tilt (per usare quest’altra espressione grottesca falsamente inglese) quando sono costretti a mangiare spaghetti non al dente, il che è la triste regola all’estero – trovano comico l’insistere dei francesi sull’uso della loro arrogante lingua nazionale, e considerano oltraggioso lo scarso rispetto dei nostri cugini transalpini verso la lingua del mondo, a noi invece così cara.

Che si rifletta su questo punto: non esiste una lingua unica, universale, ma esistono solo lingue locali. La stessa lingua inglese, di cui ci si serve ormai su scala planetaria, è un idioma fedele al suo passato e che esprime quindi un mondo di valori collegati a un ambito nazionale storico-geografico che per quanto ampio riflette una civiltà particolare. Che si pensi anche ai proverbi. Una lingua autenticamente planetaria sacrificherebbe i particolarismi culturali all’astrattezza e alla pura praticità di un linguaggio svincolato dalla storia. E appiattirebbe e sbiadirebbe le varie identità culturali dei parlanti.

 

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Ogni lingua ha il suo genio. Le lingue delle popolazioni autoctone del Gran Nord canadese contengono un ricco vocabolario di termini designanti i fenomeni naturali connessi al freddo, alla neve, al ghiaccio e alla particolare geografia dei luoghi in cui esse vivono da millenni.   

L’italiano così ricco e preciso dei nostri autori di un’epoca non proprio lontana – vedi Papini, Malaparte, Barzini – si è purtroppo impoverito. L’attuale smodata importazione di parolette inglesi che rimpiazzano validissimi termini italiani non fa che aggravare questo processo d’impoverimento del nostro parlare.  Abbiamo perso fare fiasco sostituito da fare flop. Gossip ha messo a tacere il pettegolezzo. I rumors hanno soffocato le voci e i chiacchiericci. Il summit ha sloggiato il vertice. L’onnipresente boss (nella malavita in Italia sono tutti boss per i giornalisti) ha fatto tirare le cuoia a una ricca nomenclatura criminosa, al vertice della quale vi era il capo di tutti i capi, espressione che solo all’estero ormai usano.

Oggi va di moda il progetto globalista, con l’abolizione delle frontiere fisiche, storiche e culturali della Nazione. Un mondialismo che è all’insegna però dei valori nazionali americani. Nei fatti il mondialismo non fa altro che espandere attraverso il globo i tratti dominanti della cultura americana.

L’appecoronamento all’“italiese” (italianese, italese, itanglese, anglitaliano, inglesiano, itangliano) degli abitanti della penisola, governo ed élites in testa, non è altro che cedimento, sottomissione, disgregazione dei nostri parametri identitari; il tutto condotto con spirito da camerieri, da giullari, e da sciuscià, se mi è permesso questo inglesismo ormai insostituibile.

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