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Ridere del dolore

Una delle peculiarità della natura umana, forse prima ancora del linguaggio, è la facoltà di ridere. Al netto del sospetto che anche la iena ami sogghignare, abbiamo ragione di affermare che siamo noi, l’unico animale capace di ridere autenticamente. Oltre ad essere l’unico dotato di logos e della consapevolezza della precarietà della sua permanenza terrena, l’Uomo è, infatti, anche il solo a poter avere esperienza del riso, sguaiato, dolce, sarcastico, amaro, beffardo, innocente che esso sia. Rideo, ergo sum.

 

Ridiamo di noi stessi, di ciò che è umano e che sfugge al senso comune. Rideremmo perché, come sospettava Nietzsche, la coscienza dell’assurdità di certi fenomeni ci spinge a dare ad essi, proprio attraverso il riso, una sorta di cittadinanza interiore. Ora, al di là della risata come riflesso involontario davanti una situazione che in un certo qual modo sorprende le nostre aspettative, mi domando se ridere sia sempre lecito. Penso all’uso che dell’umorismo ha fatto chi ha vissuto la terribile esperienza della Shoah. Mark Twain pensava che la comicità nascesse genuinamente solo in una situazione dolorosa. Mi sovviene la divisa stoica del “sustine et abstine’’,  “sopporta il dolore e astieniti dal lamentarti’’. Ci sono testimonianze toccanti di scampati all’Olocausto la cui sopravvivenza fu proprio il frutto di questa capacità di cogliere, nell’assurdità e nella gratuità dell’orrore, un aspetto grottesco, inaspettato, tragicamente comico, che diventava nello spirito dei deportati una sorta di provvidenziale balsamo contro le ferite subite. Ho letto di donne che, durante il rito delle selvagge rasature di gruppo, quando esse venivano derubate impietosamente della femminilità dei capelli, ridevano delle SS, figurandoseli come (sic!) improbabili parrucchieri a titolo gratuito. Ma, se è lecito ridere nel dolore, mi chiedo se sia anche lecito ridere del dolore.

 

C’è un film italiano, “La vita è bella’’, che da venticinque anni spopola nell’immaginario degli spettatori di molti Paesi del mondo e che ha fatto del suo regista, scrittore, sceneggiatore e attore principale, Roberto Benigni, una sorta di mito. Senza qui rievocarne la trama, mi permetto di considerare improponibile l’operazione di inserire nel contesto dell’Olocausto la vena cabarettistica e da pastiche avanspettacolistico in cui Benigni sicuramente eccelle. Non è questa la sede per passare in rassegna i luoghi, a mio avviso, deboli di questa pellicola che opera una ipersemplificazione del contesto storico inopportuna. Uno dei momenti più dubbî del film è quello in cui Guido (il papà attento a nascondere la verità delle cose all’innocenza del giovanissimo figlio, entrambi prigionieri ad Auschwitz) “traduce’’ in italiano le orribili minacce di un sergente tedesco in improbabili “regole di un gioco a punti’’. L’orco nazista diventa ai nostri occhi “comico’’. Ma gli occhi sono i nostri, “sicuri e nelle tiepide case’’, come direbbe Primo Levi. Non sono gli occhi di coloro che quelle minacce devono aver udito, che hanno “giocato’’ con la loro pelle, senza aver vinto nulla. Si può ridere del dolore? Vista e raccontata così, la “vita non è bella’’.

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