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La nostra vita all’estero

Arrivando qui in Canada dall’Italia abbiamo dovuto confrontarci e umilmente aprirci ad una cultura maggioritaria molto diversa dalla nostra, e abbiamo anche imparato a conoscere le differenze esistenti tra noi e gli altri gruppi minoritari come gli Ebrei, gli Arabi, gli Haitiani, i Sudamericani ed altri. Il paragone tra noi e loro ci ha fornito elementi di giudizio molto utili per capire gli altri, e anche per capire meglio ciò che noi siamo come popolo.

 

Darò un esempio del fatto che l’estero modifichi la nostra stessa autopercezione. Quei Napoletani che non hanno mai messo fuori il piede dai confini dell’Italia pensano che all’estero esista un forte mito di Napoli e dei suoi abitanti, visti come persone intelligenti, furbe e dotate dell’arte di vivere. Avendo io vissuto a lungo a Napoli, ho potuto constatare che un tal mito esiste a Napoli. Qui in Canada, in realtà, pochi conoscono Napoli e i Napoletani. Di conseguenza un Napoletano che venisse a vivere qui sarebbe considerato dalla maggioranza un italiano e niente altro.

 

C’è molto trionfalismo nei racconti sull’emigrazione italiana, ma lo studio attento del passato smentisce tanti luoghi comuni. Il verdetto di Giuseppe Prezzolini, dopo tanti anni d’America e di conoscenza intima dei “paesani” delle Little Italy, fu negativo. Egli scrisse che l’emigrazione italiana negli Stati Uniti era una tragedia che in Italia la gente ignorava. L’emigrato italiano, secondo lui, costituiva persino un ostacolo alla comprensione delle cose italiane da parte degli americani. Negli emigrati del tempo – gente di scarsa cultura, costretta all’estero per le condizioni di povertà e d’ingiustizia vigenti nella terra d’origine – la ricchezza della cultura e del genio italiani erano sepolti sotto strati d’ignoranza, di pregiudizi, di sofferenze antiche, di vita misera. Il ritratto della presenza italiana in America fatta da altri uomini di cultura italiani, che conobbero di prima mano, in quei tempi, tale fenomeno, è altrettanto negativo. Che si pensi a Mario Soldati, a Borgese, a Barzini…

 

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Ma questo succedeva nel passato. Da allora gli Italoamericani hanno fatto un progresso enorme. E l’abbiamo fatto anche noi di origine italiana, giunti qui in Québec e nel resto del Canada in epoca posteriore rispetto alla stragrande maggioranza degli Italo-americani.

 

Le analisi e i discorsi che oggi si fanno sugli “Italiani all’estero” sono sempre positivi: gli Italiani si sono fatti onore, hanno tenuto alto il nome dell’Italia, si sono affermati nei campi più disparati, sono dei gran lavoratori, conservano della civiltà di partenza i valori più validi: il senso della famiglia, lo spirito d’amicizia, il gusto della compagnia, il piacere della buona tavola. Apologetiche sono le analisi che gli stessi immigrati compiono su se stessi, vale a dire sul proprio gruppo. Bisogna dire che quest’autopercezione, veramente troppo ottimistica, è comprensibile poiché viene dopo un lungo periodo – mi riferisco in particolare al Québec – in cui essere italiani è stata per molti di noi una realtà scomoda a causa delle piccole cattiverie quasi quotidiane, dei continui pregiudizi e della scarsa considerazione che i Franco-quebecchesi, soprattutto durante la loro fase d’ipernazionalismo, ci riservavano. E anche nel resto del Canada la situazione per gli immigrati d’origine italiana non è stata granché migliore.

 

La situazione che gli immigrati hanno trovato in Québec è molto particolare rispetto alle altre province, dove esiste un’identità dominante che è anglo-canadese. Qui invece esiste un forte polo d’attrazione culturale e linguistico franco-quebecchese. Il risultato è che l’immigrato, posto di fronte a due lingue e a due culture dominanti, ha tendenza – come molti studiosi hanno constatato – a rimanere più a lungo fedele al mondo d’origine. Il processo integrativo e assimilativo, in Québec, è infatti più lungo rispetto a quanto avvenga nel resto del Canada.

 

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