Un amico mi disse che quando guardava una partita di calcio non gli interessava chi vincesse. Non faceva il tifo. Per lui era la bellezza del gioco a contare, e quindi accettava di buon grado il risultato se questo rifletteva i valori espressi sul campo dalle due squadre. Anche se a giocare era l’Italia. Io allora, per prenderlo in giro, gli dissi che si potrebbe prima di ogni partita mescolare tra loro i giocatori creando due nuove squadre, e quindi godere della bellezza del gioco.
In realtà il calcio provoca emozioni e passioni. La partita può addirittura essere vista come la sublimazione di una guerra. Molti ricorderanno la crudele battuta attribuita a Churchill: “Gli italiani perdono le partite di calcio come se fossero guerre e perdono le guerre come se fossero partite di calcio.”
Ebbene, abbiamo perso un’altra guerra! E come le guerre anche le partite di calcio possono essere perse nell’ignominia. Ma se non altro la sconfitta contro gli svizzeri non verrà acclamata come una Liberazione. Al contrario, senza un sentimento di dignità, di orgoglio, di virilità nazionale, questi nostri milionari in mutande che troppo spesso danno calci approssimativi o sbagliati al pallone suscitano imbarazzo e persino disgusto. Li suscitano soprattutto in noi, espatriati italiani, che dalla nazionale italiana attendiamo prove all’altezza del nostro forte senso di appartenenza e di dignità collettiva.
A cosa attribuire questa lunga serie di ignominiose sconfitte subite dagli azzurri? La causa principale dovrebbe saltare agli occhi dei nostri esperti di “calcio parlato”: le squadre italiane sono zeppe di stranieri, mentre i giocatori italiani sono una striminzita minoranza. Paradossale, ma vero: l’animo locale, il radicamento, l’appartenenza, il campanilismo, il regionalismo, lo spirito da guelfi e ghibellini, l’antagonismo quasi da guerra civile sono suscitati nei tifosi italiani da stuoli di milionari stranieri in mutande, sbarcati nella penisola con ingaggi principeschi, e pronti a cambiare non solo città ma nazione e continente se oggetto di compravendita nel mercato del calcio. Sono dei perfetti venduti, insomma.
“Anziché investire nei giovani si preferisce investire somme faraoniche per assoldare stranieri”, è l’amaro commento del lettore di un quotidiano. Proprio così: invece di puntare su elementi italiani coltivandoli fin dalla loro giovane età, i dirigenti calcistici investono, oltre che sulla costosa vedetta di spicco straniera, su decine di giovani giocatori africani o di altrove: l’attuale vivaio italiano. Il vivaio dei talenti locali è invece quasi inesistente.
Ciò è la causa di una squadra nazionale anemica, che non può contare sui mercenari perché questi non sono ammessi nella nazionale.
Il sogno europeo di affermazione, di riscatto, di ricchezza è molto diffuso tra i ragazzini dei villaggi africani che danno calci a una palla. Negli oratori della penisola, tra i nostri ragazzini, il sogno della riuscita attraverso il calcio professionista è invece scarso. Anche perché l’immagine di calciatori di spicco, nati in Italia, capace di fungere da modello è ormai rara.
Questa mancanza di grinta sul campo di calcio riflette anche la debolezza da cui è afflitto il carattere nazionale, afflitto da ridicoli protagonismi e dal gusto smodato per le chiacchiere e le polemiche. Difatti Spalletti, l’allenatore coautore del disastro, ha straparlato di tattiche, formazioni, sperimentazioni, filosofie… Affliggendo e disorientando i calciatori in campo.
Nella penisola, le guerre civili calcistiche si combattono e si vincono con i mercenari, ma non la guerra della nostra nazionale di calcio contro il nemico straniero. Ed è un problema per il calcio italiano, poiché ai nostri cocchi di mamma, finalmente padroni del campo, lo spirito guerriero grandemente difetta. Come purtroppo attesta questa loro ulteriore, vergognosa disfatta.