La stampa canadese ha dato ampio spazio al forte contrasto sorto tra il Canada e l’India. In Italia la stampa si è occupata della morte di Giorgio Napolitano.
L’indo-canadese Hardeep Singh Nijjar, appartenente al movimento separatista Sikh che si batte per l’avvento di un futuro stato sovrano chiamato Khalistan, fu ucciso – era il 2019 – all’esterno di un tempio Sikh della Columbia Britannica. Il primo ministro canadese Justin Trudeau ha accusato ultimamente il governo indiano di essere coinvolto in quell’atto terroristico. Harjit Sajjan, ministro canadese dell’“Emergency preparedness”, è intervenuto fornendo precisazioni circa le accuse mosse all’India. New Delhi ha rabbiosamente smentito, mettendo in crisi le relazioni diplomatiche con il Canada. Harjit Sajjan è un Sikh, come il defunto Hardeep Singh Nijjar, e ostenta orgogliosamente i contrassegni nazional-religiosi che tutti noi conosciamo: il tipico turbante e una barba cespugliosa. A questo punto non posso non riproporre al lettore queste mie righe su certi strani aspetti del multiculturalismo di Stato canadese in cui sembrano coesistere svariati nazionalismi.
Justin Trudeau è un entusiastico sostenitore del mondialismo e del multiculturalismo di Stato, tanto da aver nominato come ministro canadese della difesa un Sikh con turbante, Harjit Sajjan, appartenente alla casta superiore Jatt; la casta guerriera che sia in Punjab sia in Canada è in posizione dominante sul resto della comunità “Punjabi”. Per Trudeau il turbante e la maniera particolare di vestirsi dei Sikhs canadesi sono semplice abbigliamento. In realtà, tali contrassegni riflettono un’identità etnica, religiosa, nazionale chiara e forte. Una bandiera non è solo colori e anche un semplice drappo di tessuto può avere un forte significato simbolico. Invece Trudeau, nel corso di un suo viaggio ufficiale in India, si travestiva ogni volta con il costume tradizionale della regione visitata, non rispettando il detto “Scherza coi fanti ma lascia stare i santi”. Gli abiti tradizionali esprimono infatti una forte identità collettiva, ossia un’appartenenza, una comunanza, una fratellanza basate su un passato condiviso. Si direbbe che a un Trudeau intensamente mondialista e antisovranista, esaltatore dei diritti individuali, i valori collettivi dicano assai poco. Il passato nazionale, invece, pesa fortemente sugli individui che si identificano con una terra particolare: la patria, grande o piccola ch’essa sia. E per taluni essa è il Khalistan. Comprensibili quindi le critiche che su Justin Trudeau sono piovute dagli ambienti patriottici del Québec, i quali vedono che il principio dei due popoli fondatori, un tempo in auge e che costituiva l’anima stessa del Canada, è stato fatto a pezzi da un multiculturalismo che vede i “franco-canadesi” del Quebec ridotti al rango di semplice tessera del colorato mosaico confederale. La compianta giornalista Denise Bombardier fu molto critica: Justin Trudeau “ha trasformato la società canadese in una avanguardia mondiale del multiculturalismo angelico”. E ancora: il primo ministro canadese è “l’inventore del paese post-nazionale”.
Giorgio Napolitano, il comunista filosovietico divenuto un acceso filoamericano, e assurto alla presidenza della Repubblica italiana per un doppio mandato, è stato, da buon italiano, un trasformista. Da giovane funzionario comunista fu uno stalinista, e nel 1956 condivise la necessità espressa dal PCI di “schiacciare il fascismo nell’uovo” attraverso l’intervento dei carri armati sovietici in Ungheria. Giustificò anche l’esecuzione di Imre Nagy. Alcuni di noi, inoltre, non possono dimenticare che Napolitano fu il compagno di partito di coloro che lottarono in Italia per cedere anche Trieste alla Jugoslavia, e per i quali noi profughi adriatici eravamo dei “nemici del popolo” che fuggivano via dal paradiso dei lavoratori. Via da quella Jugoslavia che non ritroviamo più nelle carte geografiche attuali, perché Paese ormai inesistente. Ma che fu edificato anche sul nostro sangue.