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Chi di noi non ha vissuto il tormento di dover scegliere tra limite ed abisso? Chi di noi non si è rósa l’anima tra l’impulso a rincantucciarsi nel limitare di una “tiepida casa’’, chiudendo gli occhi e continuando semplicemente ad esistere, e quello contrario a sfidare le tenebre dell’incerto e dell’impervio, avventurandosi per l’arduità dell’Essere, nel sospetto di un mondo alternativo a quello della grigia quotidianità dei soliti meccanici gesti? L’umanità è da sempre dilaniata tra il senso di un vivere katà métron, secondo misura, trovando la felicità nel contenimento delle proprie aspirazioni e senza oltrepassare le proprie possibilità, contrapposto a quello di cedere alla lusinga di un canto sirenico che ci vorrebbe audaci e pronti a rimetterci in gioco. Il percorso di chi ha scelto di esiliarsi, o a volte – come neologizzo in certi miei versi – di oltreoceanarsi, esprime magnificamente questa tensione. A farne le spese è l’idea di appartenenza, l’impulso a sentirsi parte del branco, che nella fenomenologia dell’emigrazione riceve spesso colpi ferali. Ci si ritrova improvvisamente dei senza lingua, esistenzialmente afoni, in uno stato di minorità che stride con il bagaglio esperienziale acquisito nel nostro Paese d’origine.

 

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Che la scelta dell’abisso dell’emigrazione sia dettata da necessità inaggirabili o da impulsi dettati da un’inquietudine interiore, cambia poco: emigrare è sempre avere esperienza di qualcosa che muore e di altro che ha bisogno di rinascere; si deve apprendere di nuovo a camminare e a balbettare la gioia, così come il dolore. Involontariamente comici e fraintesi, con una nuova solitudine sulle spalle. E un’inedita gettatezza sul mondo (come direbbe Heidegger) che ci convince che l’Essere autentici prevede una necessaria consapevolezza di vivere la morte, quotidianamente: la morte della lingua, degli usi, del paesaggio, dei riti, sapendo dare a tutto questo una nuova vita, accresciuta, arricchita. Spesso parlo ai miei studenti della necessità di concepire l’esilio, di costruirlo come postura ontologica: sapersi porre “fuori dal suolo’’ anche in casa propria, sapersi inventare una stranierità all’interno di quella “tiepida casa’’ così malvista da Primo Levi. Lo esprimo con il ricordo personale di non essermi mai sentito “romano’’, pur essendo nato, cresciuto e… pasciuto a Roma. Quando vi ritorno (non nella “mia Roma’’, ma semplicemente “a Roma’’) e percorro via dei Fori Imperiali da Piazza Venezia, alla mia destra il fantasma di Tito Livio che la racconta e l’imponenza spettrale del Colosseo davanti, ho sensazioni di stordimento stendhaliano non differenti da quelle dei miei diciotto anni, già “esule e straniero’’, eternamente disarcionato dalla Grande Bellezza.

Bisogna saper emigrare dentro.

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