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10 febbraio, Giorno del Ricordo

Il 10 febbraio si celebrerà in Italia il “Giorno del Ricordo”, in coincidenza con la data di quel trattato di pace punitivo (Parigi, 10 febbraio 1947) che comportò la perdita delle terre dell’Adriatico orientale e l’esodo di più di 300.000 Istriani, Fiumani e Dalmati.

 

Anche quest’anno si assisterà alla discesa in campo dei revisionisti e dei negazionisti, che interverranno per darci la loro contraria verità di ciò che i nostri genitori e i nostri nonni, e in alcuni casi noi stessi, vedemmo, vivemmo, subimmo.

 

Giampaolo Pansa, che già da ragazzo era stato testimone di certe pagine buie di storia e che al termine della sua carriera osò ricordare “il sangue dei vinti”, per aver tanto osato fu rimosso dal club della nomenklatura dello Stivale, fedele custode del pensiero unico. L’umanissimo e geniale Simone Cristicchi, che fino a poco prima era considerato un compagno dai comunisti, fu etichettato come fascista per aver osato dar voce in teatro, con “Magazzino 18”, alle vittime innocenti del carnaio balcanico.

 

Immaginate cosa si racconterebbe di noi in Italia se non ci fossero le testimonianze di personaggi anche celebri come Benvenuti, Endrigo, Andretti, Luxardo, Pamich, Missoni… E se non ci fosse un gran numero di scritti di testimoni diretti di quei giorni infami.

 

La compianta Nidia Cernecca ha ricordato: “Gli slavi torturarono a morte mio padre. Non contenti, lo decapitarono per estrargli due denti d’oro. E poi, per sfregio, con la sua testa ci giocarono a palla, sui binari del treno. La sua ‘colpa’? Era italiano.” Io stesso ho avuto mio zio, Lino Gherbetti, infoibato, e infoibati furono anche i due giovani cognati di Oreste Antonelli, fratello di mio padre: i fratelli Gasparini.

 

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Ma nella patria degli odi civili, la logica binaria del campo di calcio è incisa nel Dna nazionale. E i custodi della verità ufficiale dell’ “Italia nata dalla Resistenza” scendono ogni volta in campo contro la squadra avversaria, composta di gente che non prova altro che un normale sentimento di amor patrio, e vuole ricordare i propri morti e onorare i padri. Gente pacifica, che non ha espresso atti di violenza e che non nutre sogni di riconquista, e rispetta la dignità dei suoi avversari “ex jugoslavi” e sa che nelle foibe di Tito finì anche un alto numero di Slavi anticomunisti (vedi: “Slovenia. Anche noi siamo morti per la Patria”).

 

Il popolo che non esisteva è uscito finalmente dall’ombra: intitolazioni di strade e piazze ai nostri morti, i francobolli sull’esodo, il Giorno del ricordo… Ciò giunge a dar voce a chi è stato per tanto tempo silenzioso. Sulle tragiche pagine di storia delle terre del nostro confine nord-orientale vi è stato un silenzio tombale durato mezzo secolo, cui il crollo del Muro di Berlino finalmente mise fine. Ma quel capitolo di storia stenta molto ad entrare sia negli ambienti accademici nazionali di studi sia nella coscienza degli italiani.

 

L’istituzione del “Giorno del Ricordo” è giunta troppo tardi per tanti esuli, morti lontani dall’amatissima terra natale. Penso a mia madre, a mio padre morti qui a Montréal. Ma non solo a loro. Penso al mio amico fiumano Nereo Lorenzi, ai coniugi Frandoli della Florida, a Nino Cossiani di villa Gesell, Argentina, a mio zio Oliviero Bresciani, morto a Buenos Aires, a mio cugino deceduto ad Edmonton: Bruno Gherbetti, figlio di quel Lino trucidato a Pisino dai partigiani titini.

 

Articoli, libri, cerimonie possono finalmente dare conferma ai figli di ciò che i genitori dissero loro, o forse che non dissero ai figli nati all’estero. I figli ci garantiscono la continuità biologica; qui all’estero molto meno quella culturale e per nulla quella storica. Parlo di noi che, decidendo di andare a vivere all’estero – ma ormai non è più estero per noi – abbiamo accettato di assistere alla fine, nei nostri figli e nei nostri discendenti, di quel bene così prezioso che ci era stato affidato dai nostri padri, e che invece finirà con noi: l’identità italiana.

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