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Un murale per non dimenticare le nostre “donne d’acciaio”

Tra i carri allegorici ispirati al grano, presenti alla Festa del grano in onore di Sant’Anna, patrona di Jelsi, svoltasi lo scorso 27 agosto,  a Montréal, nelle adiacenze immediate della Chiesa St-Simon Apôtre, il mio occhio è stato attratto da uno decisamente atipico: il carro trasportava una macchina da cucire e inalberava diverse scritte, tra cui primeggiava in grande: “Le donne d’acciaio”. Mi sono allora informato: “Donne d’acciaio” è il nome di un progetto che mira a rendere omaggio alle tante donne italiane che fino a un recente passato lavoravano nelle manifatture tessili di Montréal. Un lavoro compiuto in condizioni difficili, per il bene della famiglia, e che non ha mai ricevuto il riconoscimento collettivo che meritava. 

 

Eppure il sacrificio di queste lavoratrici  è  stato grande, anche perché il lavoro in fabbrica non le esentava, una volta rientrate, dai lavori domestici e dalle altre responsabilità familiari. A ciò si aggiungeva il disagio di trovarsi in un paese nuovo, in un ambiente nuovo, alle prese con una lingua nuova, in una cerchia famigliare spesso fortemente patriarcale. Cui si sommavano, inoltre, gli altri problemi connessi al trapianto in una nuova società,  in un’epoca in cui essere italiani costituiva quasi un handicap a causa di una diffusa ostilità, da parte della maggioranza, nei nostri confronti. Sappiamo che in quelle manifatture, quasi tutte di proprietà di ebrei, non erano rari i casi di dipendenti femminili che dovevano lottare per affermare la propria dignità nei confronti dei preposti. Il lavoro a cottimo voleva dire, inoltre, un superlavoro.

 

La maniera migliore di ricordare questa massa anonima di eroine del mondo del lavoro è di ricorrere ad un’opera duratura e ben visibile: un murale, ossia una rappresentazione iconografica murale, che tramandi un’immagine artistica dell’attività svolta da queste donne senza paura, disposte al sacrificio, che hanno tanto dato alla comunità italiana e alla società tutt’intera. Ed è appunto questo il progetto di un comitato ad hoc di cui fanno parte: Me Margherita M. Morsella,  Pina Di Pasquale, Carolina Eleazzaro, Faustina Bilotta, Elvira Truglia, Laura Vigo, Vera Rosati. Da menzionare anche il contributo apportato da Tania di Genova, Barbara Bologna e Cynthia Ann Sardou.

 

Il luogo previsto per questa opera murale è il parco St-Simon. A quando la realizzazione? Si spera che possa essere attuato entro breve. Quest’opera – inutile dirlo – onorerà anche le donne di altra origine, che come le italiane hanno lavorato per anni, chine sulla macchina da cucire, nel silenzio e nell’ombra.

 

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La studiosa Flora Jouvencel, nel suo ammirevole studio sugli jelsesi di Montréal, constata che “un grande settore lavorativo che ha assorbito un alto numero di jelsesi è quello delle manifatture tessili, in pieno sviluppo in quegli anni a Montréal”. L’autrice ci fornisce questo significativo dato: “Le donne che hanno lavorato in una manifattura costituiscono il 37,5 per cento delle nostre donne testimoni.” Si può dedurre che una simile alta percentuale, riferita esclusivamente alle donne jelsesi, riguardasse anche le altre italiane. 

 

Oso qui riproporre, a mia volta, ai lettori e soprattutto alle lettrici, ciò che io scrivevo nel lontano 1987: “Per tradizione immemorabile donne di casa sottomesse al marito, le immigrate continuano a sobbarcarsi alla gravosa bisogna familiare. Inoltre, sono spesso costrette dalle nuove circostanze ad andare al lavoro in una delle tante manifatture, in cui le condizioni ambientali non sono certo tra le migliori. Divise tra la casa e la fabbrica le lavoratrici immigrate trascorrono un’esistenza fatta di sacrifici. Non si può certo parlare di violazione dei diritti umani in relazione a tali situazioni [citavo i  diritti umani perché quel mio articolo denunciava il trattamento discriminatorio subito dalle donne aborigene ad opera dell’Indian Act], però sono sicuro che verrà  un giorno in cui si parlerà della presente come di un’epoca di ingiustizie per la donna immigrata.” 

 

Ebbene, è giunto il momento di riconoscere e onorare quei preziosi sacrifici degli inizi, su cui anche poggia il benessere attuale di tante famiglie d’immigrati italiani e dei loro discendenti.

 

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