Il Punto di Vittorio Giordano
Libero scambio con l’UE
Ha sempre fatto le veci del fratello minore, succube della ‘prepotenza’ economico-commerciale del suo unico e ingombrante vicino: gli Stati Uniti d’America. Tanto che ancora oggi in molti, troppi, dicono ‘America’ per intendere Stati Uniti. Una parte per il tutto: una particolare metafora che si chiama sinèddoche. Un ‘predominio’ sfociato in un pregiudizio culturale e, di riflesso, linguistico. Peccato, però, che geograficamente il Nord America contempli anche Messico e Canada. Il Paese degli aceri, in particolare, si è ormai convinto di mettere da parte le ‘stampelle a stelle e strisce’ per camminare sulle proprie gambe. Guardando meno verso sud e più verso est. Oltre oceano. Un orientamento rivoluzionario e antistorico (ma che rende giustizia alle radici più europee di un Canada culla della Nouvelle-France) che si è concretizzato domenica scorsa con la firma del trattato di libero scambio a Bruxelles. L’ultimo atto di un percorso di progressivo affrancamento dal ‘fratello maggiore’ americano. Un percorso periglioso e ‘irto d’insidie’ iniziato sette anni fa, il 6 maggio del 2009, quando il premier conservatore Stephen Harper, sostenuto dal Primo Ministro quebecchese dell’epoca, Jean Charest, ebbe la lungimiranza di aprire i negoziati con la controparte europea. Fino alla firma apposta da Justin Trudeau, che avrà anche accelerato il buon esito delle trattatative, ma ha solo completato l’opera del suo predecessore.
Al netto dei personalismi, è evidente come il Canada, insolitamente vispo e sfacciato, appaia sempre più come un’ “anomalia” sulla scena internazionale: in un’epoca sempre più votata alla chiusura dei confini (la Brexit) e alla ‘fobia’ del diverso/immigrato (il muro col Messico, di Trump), il Canada apre le sue porte e sigla accordi inediti per liberalizzare i mercati. Delle merci, dei servizi, ma anche delle professioni. E lo fa con giudizio, diversificando la sua bilancia commerciale (ci sono negoziazioni in atto anche con Cina e India), fino ad oggi troppo sbilanciata verso gli Stati Uniti, che monopolizzano il 75% delle esportazioni canadesi, contro il 9.5% destinato all’Europa. Numeri che, francamente, fanno del Canada uno stato-satellite degli Usa. Uno scenario non più tollerabile perché, come direbbe Trudeau: “Siamo nel 2016”. Fino alla svolta di domenica scorsa, con un trattato storico che abroga il 99% di dazi doganali tra le due sponde dell’Atlantico e che permette alle imprese europee di partecipare alle gare per gli appalti pubblici in Canada (e viceversa), oltre a prevedere il reciproco riconoscimento di titoli professionali e nuove regole per proteggere il diritto d’autore e i brevetti industriali. Ad oggi, l’Ue rappresenta quasi il 10% del commercio estero canadese, mentre il Canada costituisce il 12º partner commerciale più importante dell’Ue (l’1,6% delle importazioni e il 2% delle esportazioni). I margini di miglioramento sono enormi e, potenzialmente, clamorosi per il futuro economico di entrambe le sponde dell’Atlantico. I più entusiasti prefigurano un aumento degli scambi pari al 20%. Una valutazione d’impatto del CETA, condotta dai vertici europei prima dell’approvazione del trattato, stimava un aumento delle entrate di circa 11,6 miliardi di euro per l’UE e 8,2 miliardi di euro per il Canada nei sette anni successivi all’attuazione dell’accordo. Oltre ad un sostanziale contributo della liberalizzazione degli scambi di servizi e all’aumento del PIL (50% degli aumenti totali per l’UE e 45,5% degli aumenti per il Canada). Previsioni da “magnifiche sorti e progressive”. Vietato cantare vittoria, però: manca ancora
l’ “ultimo miglio”, quello decisivo, e che può (ancora) mandare tutto all’aria: fermo restando il voto del Parlamento Ue e della Camera dei Comuni canadese (entrambi scontati), si devono attendere i voti dei singoli Parlamenti nazionali. Con le ‘mine vaganti’ Austria e Germania. Per il momento, cioè, il trattato entra in vigore in maniera transitoria e parziale. E speriamo che diventi presto permanente. Almeno dal punto di vista delle aziende italiane, soprattutto quelle del settore vitivinicolo e lattiero-caseario, che saranno messe nelle condizioni di aumentare le esportazioni verso il Canada, un mercato in cui il ‘Made in Italy’ viene molto apprezzato, tanto che Ottawa ha riconosciuto le Indicazioni Geografiche Tipiche. La stessa Ottawa, però, è chiamata ad affrontare il fronte-interno: quello delle aziende casearie quebecchesi che chiedono di essere indennizzate per le perdite di 150 milioni all’anno legate all’arrivo di 18 mila tonnellate in più di formaggi europei. Questa volta, però, spetterà a Trudeau, che aveva accusato l’Europa di immobilismo sull’ostacolo Vallonia, trovare il ‘bandolo della matassa’.