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Trudeau e Legault: mala tempora currunt

IL PUNTO di Vittorio Giordano

Non è un periodo facile per i due Primi Ministri: Justin Trudeau (Canada) e François Legault (Québec) sono alle prese con questioni spinose e spigolose, che rischiano di comprometterne la luna di miele con l’elettorato. Anche perché, in politica, la percezione spesso supera la realtà. Chi rischia di più, naturalmente, è il capo del governo federale, con il voto del 21 ottobre che pende come una ‘spada di Damocle’ sul suo destino politico. La domanda lanciata dal ‘The Globe and Mail’ è la seguente: l’ufficio del Primo Ministro ha fatto o meno pressioni indebite sull’allora Ministra della giustizia, Jody Wilson-Raybould, per lasciar cadere un’inchiesta penale, sostituendola con una sanzione, riguardante la Snc-Lavalin, il gigante di ingegneria sospettato di aver pagato milioni di dollari in tangenti in Libia, all’epoca di Gheddafi? L’unico che può fare chiarezza è Trudeau (abbandonato anche dallo storico braccio destro, Gerald Butts), che però continua a fare melina, inchiodando la sua ex Ministra al “segreto professionale”. Tanto che la Commissione Giustizia della Camera, a ‘trazione’ liberale, ha respinto la richiesta di
Neodemocratici e Conservatori di ascoltare i personaggi-chiave della vicenda, come la stessa Wilson-Raybould, che nel frattempo si è dimessa da Ministra dei Veterani. Una chiusura che alimenta il dubbio che il governo voglia insabbiare una vicenda scomoda, in nome della “ragion di stato”. È legittimo che l’esecutivo possa avere l’interesse politico (ed economico) di tutelare un’azienda che ha uffici in 35 Paesi, impiega 52 mila dipendenti in tutto il mondo e che, nel 2017, ha generato ricavi per oltre 9 miliardi di dollari. È comprensibile la sua premura di salvaguardare l’immagine e le finanze del Paese. Ma l’azione del governo non può mai sostituirsi alla magistratura: in uno stato di diritto, spetta ai giudici decidere se un’azienda, accusata di frode e corruzione, sia colpevole o innocente. Chi sbaglia deve pagare. Davanti alla legge siamo tutti uguali. La giustizia ed il rispetto delle regole non sono negoziabili. A nessun livello. È il sale della democrazia.

Non se la passa bene nemmeno il Primo Ministro del Québec, François Legault. In nome di una riforma del sistema dell’immigrazione legittima e forse anche auspicabile (gli immigrati, nel numero e nella qualifica professionale, devono essere funzionali alle offerte del mercato, oltre a conoscere la lingua francese e ad aderire ai valori di libertà ed uguaglianza, che caratterizzano la società provinciale), il leader della CAQ è finito nell’occhio del ciclone dopo l’annuncio di voler “cestinare” 18 mila pratiche ricevute, ma non ancora trattate. I diretti interessati, circa 50 mila, che saranno rimborsati (chissà quando), potranno iscriversi al Programma dell’Esperienza Quebecchese (PEQ), se sono già in Québec, oppure riprovarci seguendo le linee-guida di una riforma non ancora approvata. Ma dove si è visto mai? Chi ha prodotto la propria domanda di immigrazione 3,4 o addirittura 5 anni fa, ha il sacrosanto diritto che la propria candidatura venga valutata (approvata o respinta, non importa) secondo le norme vigenti al momento della spedizione della documentazione. Tutto il resto è una forzatura retroattiva inaccettabile. Lo dice il buonsenso: fino a quando le nuove regole del gioco non entrano ufficialmente in vigore, valgono le regole precedenti. Legault proceda pure spedito con la sua riforma: nel momento in cui sarà approvata, tutti, nessuno escluso, dovranno rispettare le nuove procedure. Ma fino ad allora, il Ministero dell’Immigrazione non potrà che funzionare secondo le norme vigenti. Rispettando chi ha riposto nel Québec soldi, speranze e sogni.

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