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Surplus commerciale, vuoto di potere e stato post-nazionale: ora Trump vuole il Canada
Immagine postata da Donald Trump su ‘Truth Social’ martedì 7 gennaio 2025

 

MONTRÉAL – Quella che inizialmente sembrava una boutade, una provocazione o un’iperbole (figura retorica dell’esagerazione e dell’eccesso), artificio stilistico che pure si sposa bene con il linguaggio incendiario ed esplosivo di Donald Trump, sta assumendo sempre di più i contorni di una sciagurata minaccia che il Canada farebbe bene a prendere sul serio. Il Presidente eletto degli Stati Uniti lo ha ribadito a più riprese, non soltanto con post impulsivi e compulsivi sui social, ma anche in conferenza stampa, davanti a telecamere e taccuini: “Gli Usa non possono più subire il massiccio deficit commerciale e i sussidi di cui il Canada ha bisogno per restare a galla. Trudeau lo sapeva e si è dimesso”, ha sottolineato il Presidente eletto, ribadendo che “se il Canada si fondesse con gli Stati Uniti, non ci sarebbero tariffe, le tasse diminuirebbero notevolmente e la popolazione sarebbe totalmente al riparo dalla minaccia delle navi russe e cinesi che la circondano costantemente. Insieme, saremmo una grande Nazione”. Quella paventata dal Tycoon, quindi, è una vera e propria annessione territoriale (dopo i tentativi falliti nel 1775 e nel 1812), uno scenario che andrebbe ben oltre l’intenzione iniziale di imporre dazi doganali del 25% su tutte le merci provenienti dal Canada, qualora Ottawa non si dimostrasse in grado di fermare quella che Trump considera un’ “invasione” di droga e migranti.

 

Fermo restando che le risorse naturali di cui abbonda il Canada, dal gas naturale al petrolio e all’elettricità, fanno gola a molti, Trump compreso, vogliamo augurarci che le mire espansionistiche del nuovo inquilino della Casa Bianca (che per Panama e Groenlandia non esclude addirittura un intervento militare) rappresentino soltanto una leva (seppur paradossale, antistorica e distopica) per ottenere il massimo dagli accordi commerciali che saranno inevitabilmente ridiscussi (sebbene l’accordo nordamericano per il libero scambio sia stato rinnovato solo 5 anni fa, proprio da Trump). Ottawa, però, parte in posizione di netto svantaggio e questo per tre motivi principali. Innanzitutto, perché il Canada vanta un surplus significativo nelle relazioni bilaterali con gli Stati Uniti: 8,2 miliardi lo scorso novembre, in aumento rispetto ai 6,6 miliardi di ottobre. Considerato che il mercato americano rappresenta il 77% delle esportazioni canadesi, mentre il mercato canadese costituisce soltanto il 17% delle esportazioni americane, l’economia canadese è alla mercè degli Usa: se questi staccano la spina, il Canada è nei guai. In secondo luogo, il Canada è fiaccato da un vuoto di potere causato dalle dimissioni a scoppio ritardato di Justin Trudeau: da mesi in caduta libera nei sondaggi e sfiduciato anche dai suoi stessi Ministri, solo lo scorso 6 gennaio il Primo Ministro ha annunciato l’intenzione di farsi da parte. Ma non subito: resterà alla guida del Paese almeno fino al 24 marzo, quando riprenderanno i lavori parlamentari e quando il Partito Liberale potrà contare su un nuovo leader (che sceglierà entro il 9 marzo). Il sistema anglosassone funziona così e Trudeau ne ha tratto abilmente vantaggio, anteponendo gli interessi del partito a quelli del Paese. Infine, l’errore più grave e imperdonabile di Trudeau è stato quello di aver trasformato il Canada in una realtà post-nazionale, come da lui stesso rivendicato nel 2015, in un’intervista al New Tork Times: “Il Canada potrebbe essere il primo stato post-nazionale… Non c’è un’identità centrale, nessun mainstream in Canada”. Una “non-nazione” che trascende le identità tradizionali e che promuove una società fluida, pluralista e inclusiva. Il famoso multiculturalismo come modello da anteporre al melting-pot americano, dove invece le diverse culture non coabitano, ma si mescolano e si amalgamano fino ad assimilarsi, dando vita ad una nuova entità omogenea ed uniforme.

 

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Un modello di frammentazione e polverizzazione sociale che, unito all’assetto politico confederale che favorisce di per sé le spinte centrifughe delle singole Province (le rivendicazioni separatiste del Québec ne sono un esempio) e al progressivo distacco dalla Monarchia britannica (l’appartenenza al Commonwealth è sempre più un orpello accessorio e folkloristico), ha minato il senso di appartenenza e la coesione storica, geografica e valoriale di un Paese giovane ed ambizioso. Un Paese che, dal 1867 in poi, si è distinto dall’ingombrante vicino per un sistema pubblico forte nella sanità e nell’istruzione, un rigoroso controllo delle armi ed una decisa tutela dei diritti dei lavoratori. Tratti caratterizzanti via via ‘inquinati’ da un multiculturalismo sempre più aggressivo e caotico. Un assist servito su un piatto d’argento a Trump, che oggi si sente addirittura legittimato a voler annettere, facendone il 51º Stato, un Paese che, per stessa ammissione del suo Premier, non è una Nazione; e a voler inglobare sotto la bandiera a Stelle e Strisce una popolazione, formata da popoli separati e distinti, il cui unico ‘elemento coagulante’ è quello di non essere americana. Troppo poco per non ingolosire un megalomane come Donald Trump che, rispolverando la Dottrina Monroe, punta a rendere l’America tutta – quella geografica e non solo quella politica – nuovamente grande.

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