(Adnkronos) – “Dopo tre o quattro ore i corpi delle persone che non ce l’hanno fatta iniziavano a emanare un cattivo odore a causa del sole e del caldo. Abbiamo pregato, abbiamo lavato i loro corpi con l’acqua di mare, cercando di coprirli con quello che avevamo per seguire la tradizione e li abbiamo lasciati andare in mare”. A raccontarlo al team di Medici senza frontiere è stato uno dei 26 naufraghi, siriani e afghani, arrivati a Pozzallo (Ragusa) lo scorso 12 settembre. Partiti dalla Turchia il 28 agosto, sono rimasti in mare in balia delle onde per 15 giorni a causa di un guasto al motore dell’imbarcazione sulla quale viaggiavano, senza bere né mangiare per oltre una settimana. Una traversata drammatica durante la quale sono morti tre bambini, tra cui un undicenne in viaggio senza genitori, e tre adulti. Morti di sete e di fame.
“Quando siamo arrivati nell’hotspot di Pozzallo molti dei sopravvissuti erano ancora in stato confusionale, sotto shock, altri non riuscivano ancora a realizzare di non essere più in mare – racconta Mara Tunno, psicologa di Msf -. La prima cosa che abbiamo fatto è stato fargli realizzare di essere sulla terraferma, di essere salvi, vivi. Abbiamo chiesto loro di scegliere cinque cose da toccare, quattro da vedere, tre da sentire, due da odorare e una da percepire in bocca – prosegue -. Ci hanno risposto che sentivano soltanto il sapore dell’acqua del motore della barca”. Sui loro volti c’è ancora paura.
“Dopo tutto questo orrore, ho il terrore che sarò respinto indietro e che tutta questa sofferenza sia stata un viaggio inutile”, ha confessato un ragazzo di 17 anni. A bordo, dopo aver visto morire diverse persone, “ci chiedevamo tutti quando sarebbe arrivato il nostro turno – racconta una delle persone sopravvissute -. Abbiamo iniziato a pregare aspettando la morte. Uno di noi si è coperto il viso con quello che ha trovato. Si preparava a morire. Ci ha dato i pochi soldi che aveva in tasca, chiedendoci di donarli sulla terraferma a chi ne avesse avuto davvero bisogno. Gli abbiamo scoperto il volto e gli abbiamo detto: ‘Tu ce la farai, non moriremo’”.
“A bordo con noi c’era un signore con due bambini molto piccoli, che erano sul punto di morire per la fame. Così ho offerto loro il mio cibo per farli rimanere in vita – ha raccontato un altro dei superstiti -. Nonostante il cibo, i bambini non ce l’hanno fatta. A un certo punto anche mia moglie si è sentita male ed ero convinto che sarebbe morta. Ho pensato al cibo che avevo dato a quei bambini, non aveva salvato loro e non avrebbe più potuto sfamare mia moglie. Non mi sono pentito del mio gesto, ma ho pensato che forse con quel cibo avrei potuto salvare mia moglie. Mi sono coperto il volto con una maglietta per non farmi vedere e ho iniziato a piangere”.
Completamente esposti al sole, le persone a bordo sono state trasportate dalle onde verso le coste della Libia. Già dopo qualche giorno di navigazione le scorte di cibo e di acqua sono praticamente finite. “A un certo punto uno di noi ha trovato una mandorla in tasca. Abbiamo deciso di dividercela ma quasi mi soffocavo per quella mezza mandorla che non riuscivo a mandare giù”, racconta un ragazzo afghano. “Per la disperazione abbiamo iniziato a bere acqua di mare, provando a filtrarla con i vestiti. L’abbiamo mischiata con il dentifricio per addolcirla e abbiamo bevuto l’acqua del motore pur di cercare di sopravvivere – racconta un ragazzo siriano sopravvissuto -. Ero consapevole che sarei potuto morire bevendo quell’acqua, ma non avevamo altra scelta”. Lo sapeva bene perché questo ragazzo è un meccanico. Ha deciso di andare in Europa per poter dare un futuro migliore a sua moglie e ai suoi figli dopo che le politiche migratorie in Turchia, dove ha vissuto molti anni, sono diventate più severe. A bordo serviva acqua anche per poter deglutire medicine salvavita.
“Guarda quante pasticche avevo con me – ha raccontato un signore che soffre di epilessia ad Alida Serrachieri, infermiera e referente medico di Msf -. Non le ho potute prendere perché avevo la gola talmente secca da non poter deglutire”. Non si è salvata Nour, invece, una signora anziana che soffriva di ipertensione. La terapia non ha fatto effetto o probabilmente non è riuscita a deglutire le sue medicine. Il suo aspetto ha iniziato a cambiare lentamente, finché non è morta. A bordo c’era anche una ragazza siriana che viveva in Turchia da diversi anni. Lavorava come interprete in ospedale, anche se ultimamente la vita era diventata particolarmente difficile per i siriani. Il padre aveva bisogno di un intervento medico ma in Turchia non riusciva nemmeno a vedere un medico e così hanno deciso di partire. Lui è morto durante il viaggio. Alla vista di qualsiasi imbarcazione si accendeva a bordo la speranza di essere soccorsi.
“Speranza che si è spenta ogni volta che persone con acqua e cibo a disposizione hanno deciso di non soccorrerci”, raccontano. Solo una nave si è avvicinata per lanciare acqua e cibo, finiti purtroppo distanti dal barchino rendendo così i tentativi di recuperali vani. La piccola imbarcazione è stata prima soccorsa da un mercantile e poi dalla Guardia costiera che ha portato i superstiti a Pozzallo. “Quando il mercantile era abbastanza vicino a noi mi sono tuffato – racconta uno dei naufraghi -. Non so dove ho trovato le forze, ma mi sono buttato per cercare di raggiungere quella barca. Mentre ero in acqua ho incrociato lo sguardo di una persona a bordo e dai suoi occhi ho capito che aveva un cuore. Era dell’est Europa, credo un ucraino. Ed è stato così, l’imbarcazione è tornata indietro e ci ha soccorsi. Ci hanno offerto uova, patate, verdure e acqua. Eravamo finalmente salvi”.