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Prevenire è meglio che curare

IL PUNTO di Vittorio Giordano

L’allarme è globale, le misure di contenimento (sempre più restrittive) pure; eppure le autorità canadesi (un pò meno quelle quebecchesi) continuano a predicare calma, ribadendo che il pericolo di contagio resta “debole”. Come se la terra degli Aceri fosse un’oasi nel deserto, risparmiata – forse per grazia ricevuta – da una calamità naturale che continua a mietere vittime a qualsiasi latitutine e longitudine. Un approccio naïf, blando e superficiale, giustificato, per il momento, dal numero contenuto di contagi. Contagi che noi ci auguriamo, naturalmente, restino circoscritti. La logica, il buon senso ed il ritmo accelerato di propagazione del virus, però, ci fanno temere il peggio. Secondo gli esperti, infatti, è solo questione di tempo. “L’infezione arriverà, siamo già in una situazione di pandemia”, ha detto a Le Devoir la dottoressa Tatiana Scorza, prof.ssa al Dipartimento di Scienze Biologiche all’Université du Québec a Montréal. È il risvolto, amaro, della globalizzazione: viviamo in un villaggio globale, siamo tutti vicini di casa. Nel bene e nel male, in salute e in malattia. Come per la crisi dei blocchi ferroviari, a Ottawa prevalgono l’attesa e la cautela: il governo Trudeau non ci sembra abbastanza risoluto nel prendere provvedimenti anche impopolari, ma necessari, per impedire che il virus si propaghi anche in Canada. Servirebbero accorgimenti semplici, ma decisivi. Come l’obbligo di misurare la temperatura a tutti i viaggiatori in arrivo negli aeroporti del Paese. O sospendere i voli, anche indiretti, da e per i Paesi ad alto rischio, come la Cina, la Corea del Sud, l’Iran e, purtroppo, l’Italia. O quantomeno mettere in quarantena preventiva per 14 giorni chiunque arrivi, o abbia fatto scalo in questi 4 Paesi. Tant’è vero che nei giorni scorsi alcuni viaggiatori quebecchesi hanno denunciato a TVA Nouvelles la totale mancanza di controlli su un volo con una sessantina di cittadini iraniani a bordo, tra cui alcuni affetti da nausea e vomito durante il viaggio. Un lassismo irresponsabile. Qualche giorno fa, Karl Wiess, nota virologa del Jewish Hospital di Montréal, denunciava su Radio-Canada la mancanza di misure di coordinamento efficace da parte del governo federale. “Non possiamo mica bandire tutto il mondo – ha tagliato corto Trudeau, mercoledì scorso a Saint-Jérôme -: dobbiamo prendere precauzioni responsabili come individui e come Comunità”. Come Ponzio Pilato, il governo canadese preferisce lavarsi le mani, scaricando tutta la responsabilità sui cittadini. Che sono sempre più inquieti e preoccupati. E così, mentre lo stato di New York, a sud del confine, dichiara lo stato di emergenza, ed il presidente Trump si affida pubblicamente ad un luminare come Anthony Fauci, fra i più celebri immunologi del mondo, Ottawa continua con il suo approccio ‘soft’, limitandosi a qualche annuncio di facciata: è stato messo in piedi un comitato di emergenza, presieduto dalla Ministra Chrystia Freeland, ed è stato fissato per venerdì prossimo un primo incontro con i Primi Ministri provinciali. Il Ministro delle Finanze, Bill Morneau, ha annunciato che nella manovra economica metterà a punto delle misure per far fronte al coronavirus, mentre la Ministra della Salute Patty Hajdu ha fatto sapere che il governo stanzierà 27 milioni per finanziare la ricerca scientifica. Misure giuste e condivisibili, ma poco incisive nell’immediato, di certo inadeguate per scongiurare un’eventuale epidemia nazionale. E si sa: prevenire è sempre meglio che curare. Soprattutto quando il nemico è un virus subdolo, contagioso e letale.

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