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Oggi è la giornata Mondiale della Pizza: il cibo più amato al mondo

Roma – Oggi 17 gennaio si celebra la Giornata Mondiale della Pizza 2019. Una scusa per consumare questo gustoso cibo italiano, nato a Napoli e diffuso e amato in tutto il mondo. Giornate come questa servono a far conoscere meglio questo prodotto, semplice ma saporito.

Nato dalla cucina povera ma diventato negli anni sempre più ricco ed elaborato, fino all’invenzione della pizza gourmet. Pur nelle sue innumerevoli varianti, la pizza non ha perso le sue qualità originarie di alimento semplice e genuino preparato con quegli ingredienti di base, pasta lievitata, pomodoro e mozzarella, che sono il suo marchio distintivo. Al piatto, al taglio o a fette giganti, al ristorante o come cibo da strada, la pizza si consuma in modo facile e pratico e mette sempre d’accordo tutti i gusti.

La pizza è diventata uno dei cibi più popolari e consumati al mondo, che le venga dedicata una Giornata Mondiale non è una sorpresa. Dalla ricetta base di pasta lievitata condita con passato di pomodoro, mozzarella campana e basilico, la pizza negli anni si è arricchita di farciture ed è stata proposta in tante varianti, fino alla golosa e sostanziosa pizza gourmet, con super farcitura di ingredienti pregiati. Oggi le pizzerie non sono più considerate ristoranti di serie B, ma vengono incluse, ovviamente quelle di qualità, nelle guide sui migliori ristoranti. Ovviamente in una categoria loro dedicata e con la segnalazione dei punti di forza nell’utilizzo degli ingredienti e nella loro combinazione originale, insieme all’abbinamento delle bevande. Tante, poi, sono le guide dedicate specificamente alle pizzerie.

Nel mondo, i maggiori consumatori di pizza sono gli americani, i campioni del mangiare veloce. Anche noi italiani, tuttavia, ci difendiamo bene. Secondo gli ultimi dati rilevati dal Centro Studi Cna (Confederazione Nazionale dell’Artigianato e della Piccola e Media Impresa) su dati di Infocamere e Infoimprese e presentati da Cna Agroalimentare la produzione giornaliera in tutto il Paese è di 8 milioni di pizze, due miliardi l’anno, come segnala l’Ansa. Grandi produttori per grandi consumi.

In Italia, le imprese che vendono pizza sono quasi 127 mila di cui 76.357 sono veri e propri esercizi di ristorazione, 40mila sono ristoranti-pizzerie e circa 36.300 bar-pizzerie. La maggior parte di queste atttività si trova in Campania con il 16% delle pizzerie, poi in Sicilia (13%), Lazio (12%), Lombardia e Puglia (10%). I pizzaioli impiegati nell’attività, sempre secondo i dati di Cna, sono quasi 105 mila, ma superano i 200mila nei fine settimana.

Per quanto riguarda le preferenze dei gusti, la pizza tradizionale vince sulla gourmet: a scegliere la prima infatti sono 8 italiani su 10, che preferiscono le classiche marinara, margherita, napoletana o capricciosa. La fascia media del prezzo di una pizza al piatto non supera in un caso su due i 7 euro, ma non manca anche una piccola fascia di mercato (il 4%) che supera i 10 euro. Inoltre dallo studio di Cna risulta che la pizza tonda ha la meglio sugli altri formati ed è preferita in abbinamento con delle fritture. Infine nella scelta degli ingredienti per la preparazione della pizza è preferito l’impasto con farina 00 e cottura nel forno a pietra. Infine, il 75% della clientela sceglie di gustare la specialità napoletana comodamente servita al tavolo.

Insomma per gli italiani la pizza è tradizionale: napoletana, al piatto, gustata comodamente seduti e magari accompagnata da una frittura.

 

Storia della pizza: tre tappe salienti

La pizza è un cibo stanziale che nasce nel Mediterraneo. Secondo alcuni studiosi ad inventare questo cibo povero sarebbero stati gli Egizi, i primi a distinguere tra farro piccolo e farro “normale” e a capire il ruolo del lievito. I Romani iniziano a usare i dischi di pane a mo’ di piatti per contenere pietanze sugose. Nel 997, nel latino medievale del Codex cajetanus di Gaeta, per la prima volta si usa la parola “piza” per indicare una focaccia. Nel corso della sua storia, la pizza vive un secondo momento di svolta quando viene introdotta come “prova da forno” nell’attività dei panettieri, per testare la temperatura. Infine, nel Settecento abbiamo la nascita del forno a bocca di mezzaluna – di cui si ignora l’inventore – ma che ha rivoluzionato il mondo della pizza, conferendo a quella napoletana la sua specificità.

 

Le caratteristiche di una buona pizza

“La caratteristica fondamentale di una buona pizza è la digeribilità, che dipende dalla lievitazione bene eseguita – spiega Pignataro – una buona pizza napoletana, nello specifico margherita e marinara, è quella in cui i sapori si fondono perfettamente grazie alla cottura in forno a 480 gradi per 90 secondi al massimo. I sapori diventano qualcos’altro. Per gli altri stili di pizza, ciò che si sente maggiormente è il sapore del pane”.

Il cornicione.  Col termine cornicione si indica il bordo rialzato che circonda la parte di impasto su cui è cosparso il condimento. “Mentre prima il cornicione si tendeva a lasciarlo, ora è un punto di orgoglio da parte di tutti i giovani pizzaioli, chiamati canottisti proprio perché lo fanno particolarmente pronunciato e pieno d’aria. È da questa parte della pizza che si valuta la qualità del piatto”, sottolinea l’esperto.

Il condimento. Una curiosità sul condimento riguarda l’olio d’oliva. Nonostante la pizza sia nata nel bacino del Mediterraneo, questo grasso non è sempre stato tra gli ingredienti in elenco. “In passato si utilizzava lo strutto – fa notare Pignataro – mentre dal Dopoguerra, con l’arrivo degli americani che hanno introdotto l’olio di semi, ha prevalso questo nuovo tipo di grasso. L’olio d’oliva è una riscoperta recente, dato che da sempre è considerato un grasso nobile”.

Il forno. La pizza napoletana è l’unico tipo ad avere un forno dedicato: quello con la bocca a mezzaluna. Nato nel Settecento, questo strumento di cottura ha una caratteristica strutturale che permette di raggiungere i 450-480 gradi interni, che permettono alla pizza di cuocere tra i 60 e i 90 secondi in base all’impasto. Secondo il disciplinare dell’Associazione Verace Pizza la temperatura prevista per la cottura della pizza napoletana è di 430 °C circa alla base e 485 °C circa alla volta del forno. Per gestire correttamente il forno ci vuole un fornaio, “spalla del pizzaiolo”, che segue la pizza in cottura e si occupa della temperatura.

Il lievito. Meglio il lievito madre o quello di birra? “Il lievito di birra è altrettanto naturale”, spiega Pignataro, che nel suo libro prende le distanze da ogni posizione ideologica che propenda verso l’uno o l’altro prodotto. “Spesso l’uso del lievito madre è solo un’operazione commerciale, come quella del macinato a pietra rispetto alla lavorazione meccanica, la rappresentazione di un Eden bucolico che solo il marketing di grandi multinazionali poteva inventare e portare dalla propria parte”.

 

Spessa e morbida o sottile e croccante?

Se la “Verace Pizza Napoletana” è nota per la sua elasticità e morbidezza, esiste anche un’altra variante della pizza, sottile e croccante, diffusa soprattutto nel Lazio. “Lo spartiacque è la tipologia di cottura – spiega Pignataro – la pizza napoletana subisce una cottura rapida e veloce. In questo modo è possibile conservare la morbidezza dell’impasto. La pizza croccante invece viene cotta un poco più a lungo nei forni a bocca più larga. Dai 90 secondi si passa ai 2-3 minuti: con una cottura così lunga si perde parte dell’idratazione dell’impasto e si ottiene l’effetto croccante. L’evoluzione è l’effetto crunch, un po’ a metà tra i due estremi: l’effetto piacevole di sentire il pane sotto i denti, ma con un retrogusto morbido”.

Gli errori su cui non si può sorvolare

Secondo Pignataro una buona pizza non deve avere bruciature: “La parte bruciata indica una cottura non buona a causa della temperatura del forno troppo alta”.

La pizza fuori dall’Italia: chi sono i pizzaioli stranieri più bravi?

“Noi italiani pensiamo che la pizza sia nata in Italia, ma parlando con gli americani scoprireste che pensano che questo piatto sia nato in America”. Un aneddoto che fa sorridere, ma che potrebbe essere motivato dall’esistenza di 5.000 pizzerie solo a New York. “La città con più pizzerie al mondo è San Paolo del Brasile, dove si contano 6.500 esercizi. Napoli è solo terza con 1.500”. Fuori dall’Italia la pizza si trasforma e, se i giapponesi sono diventati meticolosi maestri dello stile napoletano, negli Stati Uniti fioriscono nuovi stili come la New York e la Chicago style, simile alla focaccia barese. Qui la pizza non si concepisce intera, ma a fette a causa dell’eccessivo condimento. La pizza è molto diffusa anche nei paesi arabi, maestri della tecnica dello schiaffo, ossia la capacità di allargare il panetto passandolo da un palmo all’altro delle mani secondo un gesto ancestrale tipico napoletano.

Pizza patrimonio immateriale dell’Umanità Unesco

La parola “pizzaiolo” – anzi “pizzajolo” – compare per la prima volta in un documento ufficiale del 12 agosto 1799. Gennaro Majello presenta una supplica al re, lamentando i danni subiti dalla “sedicente Repubblica” giacobina, durante la quale è stato costretto a tener chiusa la sua bottega perché i francesi vi andavano senza pagare. Nel 2017 l’arte di Majello è diventata patrimonio culturale dell’Umanità Unesco. Cos’è cambiato dopo questo riconoscimento? Non c’è stata un’impennata di vendite, ma l’importanza di questo piatto e di tutto ciò che gli ruota intorno è cambiata, a cominciare proprio da chi fa le pizze. “Viene percepita più all’estero che in Italia – spiega Pignataro – e ha dato un motivo in più di espansione. Infatti c’è una domanda fortissima di pizzaioli a Dubai, Hong Kong, Shangai, Regno Unito. Anche in Francia, dove la pizza era molto snobbata, ore è diventata un vero trend. Tanto per fare un esempio, la pizzeria Dalmata, a Parigi, ha pizzaioli napoletani anche se i proprietari sono francesi”.

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