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Memorie di viaggi di Paolo Ruiz. New York, Metropolitan Museum

Andare a New York senza visitare il Metropolitan Museum è come andare a Roma senza vedere il Vaticano o a Parigi senza passare per il Louvre.

Le torri gemelle erano ancora intatte; il mondo non era stato sconvolto da quell’avvenimento che ancora oggi fa rabbrividire al pensiero di tanta crudeltà e inutilità. Era la prima volta che mi avventuravo nella capitale mondiale della moda, dell’arte e del commercio. Sperduto in mezzo a tanta ostentazione di progresso e tra grattacieli che sembravano raggiungere le nuvole, ho trovato un parcheggio vicino al museo e, con l’umiltà di un pellegrino che arriva al luogo di culto, ho salito la scalinata che mi avrebbe portato all’ammirazione della creatività dell’essere umano.

page28image2293689872Oltrepassato il portale mi sono trovato in un corridoio. A sinistra, lontana, quasi alla fine, una grande statua annunciava la sezione delle sculture. Sono rimasto a bocca aperta, quella scultura mi sembrò rappresentasse il Conte Ugolino. Con un gran batticuore mi sono avvicinato e ho costatato che era davvero il famoso Conte che Dante aveva incontrato nel suo viaggio all’Inferno.

La scultura è stata creata nel 1865-67 da Jean-Baptiste Carpeaux che si ispirò alle figure muscolose di Michelangelo nel Giudizio Universale.

“Ambo le mani per dolor mi morsi”, scrive Dante nel XXXIII canto dell’Inferno. È il momento più terribile della storia. Ugolino, accusato di tradimento, era stato rinchiuso in una torre nel 1288, assieme ai due figli e ai due nipoti. Furono lasciati senza viveri e costretti a morire di fame.

Il racconto che Ugolino fa a Dante dell’ultimo momento della sua vita è drammatico. Vedendo il padre mordersi le mani, i figli, credendo fosse il gesto disperato della fame, lo esortarono a sfamarsi con le loro carni: “Tu ne vestisti queste misere carni e tu ne spoglia”. Ormai stremato dalla fame, il Conte vede i figli e i nipoti morire ai suoi piedi uno dopo l’altro; in uno straziante grido finale, Ugolino racconta: “… poi che fur morti; poscia, più che ‘l dolor, poté ‘l digiuno”.

I corpi sono atletici e non denotato la sofferenza della fame; è nell’espressione dei visi, nella stretta disperata delle mani attorno alle gambe del padre, nello sguardo corrucciato del Conte e nel mordersi le dita che possiamo sentire la disperazione e la rabbia, l’impotenza e il dubbio crudele di compiere l’atto osceno… Ma il digiuno fu più forte del dolore!

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