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M5S, guerra Conte-Grillo su simbolo: da Lega a Forza Italia tutte le contese sui brand dei partiti

(Adnkronos) – La guerra interna ai 5 Stelle per il controllo del simbolo rinfocola l’eterno dibattito sui contrassegni dei partiti, ormai diventati dei veri e propri brand in ossequio alle leggi del marketing. Dal forte valore identitario, ma anche arma acchiappa voti del leader in una politica sempre più personalizzata dopo Tangentopoli e la discesa in campo di Silvio Berlusconi, il vecchio e caro logo esercita ancora un grande appeal. Basti pensare a cosa sta accadendo in casa M5S, dove è arrivato il momento del redde rationem tra Beppe Grillo e Giuseppe Conte. Il garante del Movimento non ha nascosto il “disagio” nel vedere il logo della sua creatura politica nelle mani dei contiani e non esclude iniziative per sottrarlo all”avvocato del popolo’; per Conte, Grillo non può accampare alcuna pretesa, alla luce di una scrittura privata siglata tra il comico e il Movimento, che impegna ‘l’elevato’ a non intraprendere azioni legali circa l’utilizzo del nome e del marchio da parte dei pentastellati.  

Alla vigilia del nuovo voto della Costituente nel weekend, Conte va ripetendo infatti quanto detto anche in tv: “Il simbolo è stato registrato da Di Maio prima che io arrivassi, per i partiti vale l’uso in maniera consolidata e dal Movimento è stato utilizzato in modo consolidato; quindi, non è di Grillo, ma non è neppure di Conte…”. La partita, dunque, resta non aperta, ma apertissima. Ma perché tante polemiche? Semplice. Il ‘marchio’ di partito – non tutti lo sanno o lo dicono – è anche sinonimo di grande potere, non solo decisionale. I parlamentari interpellati dall’Adnkronos a mezza bocca lo confermano: un segretario senza ‘l’emblema di famiglia’ è come se fosse un’anatra zoppa o, peggio, un generale senza bandiera, la cui testa può cadere in qualsiasi momento. Per capire meglio, bisogna spulciare gli statuti e tener conto della prassi consolidata negli anni. 

Partiamo da un dato certo: solo una persona è legittimata ad usare il simbolo nelle competizioni elettorali: il depositario, che corrisponde alla figura del tesoriere (scelto tra i fedelissimi del ‘capo’) e ha le chiavi di un movimento politico, perché ne gestisce le finanze e l’amministrazione. A questo punto molti si chiedono: che prerogative spettano, invece, ai leader? Possono considerarsi titolari-proprietari del contrassegno e disporne a loro piacimento? Nel caso di Forza Italia (il ‘partito azienda’ come lo definivano i suoi detrattori ai tempi di Silvio Berlusconi) il logo si è sempre identificato con il suo fondatore e oggi, scomparso il Cav, resta aperto il dibattito, sia sul fronte politico che su quello tecnico-giuridico, su a chi appartenga l’ultima versione grafica del brand forzista, presentata alle scorse europee, ovvero, il tricolore cerchiato con la scritta Forza Italia, sotto la dicitura ‘Berlusconi presidente’ e sopra il riferimento al Ppe.  

Secondo autorevoli fonti azzurre, venuto meno Berlusconi, il simbolo è nella disponibilità degli eredi, i suoi cinque figli: solo loro possono accampare pretese e supervisionare l’uso in campagna elettorale, che spetta per statuto all’amministratore nazionale di Fi (nelle vesti di depositario) l’avvocato civilista Fabio Roscioli, gradito alla famiglia dell’ex premier. La nomina di Roscioli, avvenuta nel giugno 2023, racconta un big azzurro, è stato un “chiaro segnale che i figli del Cavaliere intendono continuare ad ‘investire’ nel partito e a garantire la copertura dei debiti erediti dal padre tramite le fideiussioni bancarie”.  

Ignazio Abrignani, ex responsabile nazionale elettorale di Fi, su delega di Berlusconi presentò alle politiche del marzo ’94 il contrassegno la cui titolarità spettava all’associazione non riconosciuta denominata ‘Movimento politico Forza Italia’ costituita davanti al notaio romano Francesco Colistra il 18 gennaio di 30 anni fa. In base al principio della precedenza, ovvero chi per primo usa il simbolo, riferiscono le stesse fonti azzurre, è anche il titolare e può decidere cosa farne. Poi tutto è cambiato da punto di vista giuridico (secondo la giurisprudenza elettorale prevalente) quando Berlusconi è diventato il principale creditore di Fi e di fatto il proprietario, perché ‘garante’ di circa 100 milioni euro di passivo.  

Da quel momento, infatti, anche il logo è passato nelle mani del presidente-fondatore e, alla sua morte, è stato ereditato dai figli. Carte alla mano, il primo ottobre 2023 il Consiglio nazionale del partito presieduto dal neo segretario Antonio Tajani (circa 4 mesi prima, il 15 luglio, era stato eletto all’unanimità numero uno azzurro) ha deliberato la modifica dello statuto inserendo il cognome di Berlusconi nella descrizione ufficiale del simbolo riconoscendo all’ex presidente del Consiglio il titolo onorifico di ‘presidente fondatore’. 

Più semplice la situazione in via della Scrofa dove non si registrano contese. L’emblema di Fratelli d’Italia appartiene all’associazione ‘Fratelli d’Italia-Alleanza Nazionale’ fondata nel 2012 da Giorgia Meloni, Ignazio La Russa e Guido Crosetto e ogni sua modifica sostanziale è demandata all’Assemblea nazionale del partito. Il tesoriere Roberto Mele, in qualità di legale rappresentante di Fdi, ne esercita la tutela nei confronti di terzi e avverso ogni utilizzo indebito. Discorso a parte per quanto concerne la storica Fiamma tricolore: simbolo dell’Msi di Giorgio Almirante nato nel 1946, fu ‘adottato’ da Alleanza Nazionale creata da Gianfranco Fini nel 1995 con la cosiddetta svolta di Fiuggi. Solo nel 2014 Fdi ottenne dalla ‘Fondazione Alleanza Nazionale’ (che di fatto è il ‘proprietario-custode’) la possibilità di usare la Fiamma. 

L’uso del logo di Fdi è autorizzato dal presidente nazionale del partito, ovvero da Giorgia Meloni, che, nella sola materia elettorale, ha la facoltà di apportarvi delle modifiche e delegare il segretario amministrativo o dei procuratori speciali al suo deposito presso gli uffici elettorali in occasione della presentazione delle liste.  

In casa Lega il quadro appare complicato. E quello sul simbolo resta un nodo cruciale. Non sono mancati nel tempo i tentativi di appropriazione dello ‘Spadone’ da parte di fuoriusciti o espulsi dal partito di via Bellerio. Quello con Alberto da Giussano è l’emblema più antico presente in Parlamento. E’ infatti il ‘marchio’ di fabbrica della vecchia Lega Nord, quella dura e pura delle origini, fondata da Umberto Bossi, oggi nei fatti ‘sostituita’ dalla ‘Lega per Salvini premier’. Formazione, quella di Salvini, nata a fine 2017, che ha adottato il simbolo di proprietà della vecchia Lega, che – statuto alla mano – può concedere “in conformità ad un apposito regolamento” deliberato dal Consiglio federale del partito “l’utilizzo del simbolo” a soggetti che sono in campo “per il perseguimento delle finalità” indicate nell’atto fondativo della vecchia Lega.  

In virtù di questo accordo, il nuovo partito di Salvini, nel suo logo, dove campeggia la scritta ‘Salvini premier’ in occasione delle elezioni, inserisce il cerchio racchiudente la figura del condottiero con lo spadone sguainato e la parola ‘Lega’ con quello stesso carattere tipografico. Una semplificazione del simbolo, descritto dall’art. 3 dello statuto della vecchia Lega Nord: “Costituito da un cerchio racchiudente la figura di Alberto da Giussano, così come rappresentato dal monumento di Legnano; sullo scudo è disegnata la figura del Leone di San Marco, il tutto contornato, nella parte superiore, dalla scritta LEGA NORD. Nella parte inferiore è la parola ‘Padania’. Alla destra del guerriero è posizionato il ‘Sole delle Alpi’, rappresentato da sei petali disposti all’interno di un cerchio”.  

Simbolo che tuttora resta di proprietà della vecchia Lega che ha in Igor Iezzi, deputato milanese, il commissario eletto nel 2019 e in Bossi il presidente. Così come alla ‘Lega per Salvini premier’ appartiene il logo, in stile trumpiano, costituito “da un rettangolo di colore blu in cui campeggia la scritta ‘Lega per Salvini premier’ in bianco, circondata da una sottile cornice”, anche qui come descritto nello statuto. In particolare, va segnalato che l’immagine di Alberto da Giussano è stata depositata da Salvini in persona nel 2018: il marchio è in attesa della scadenza del periodo di opponibilità. 

Statuto alla mano, nel Partito democratico, riferiscono fonti qualificate del Nazareno, c’è una ‘donna sola al comando’: tutto è concentrato nelle mani del segretario nazionale. Elly Schlein è il titolare del simbolo, ovvero di fatto il suo ‘proprietario’, ma nello stesso tempo è anche il depositario, perché ne cura l’utilizzo, anche ai fini dello svolgimento di tutte le attività necessarie alla presentazione delle liste nelle tornate elettorali.  

Come non ricordare poi il caso dello scudocrociato della vecchia Dc, un contenzioso che dura da anni e non vede una soluzione a portata di mano. Lo storico simbolo della Balena Bianca è periodicamente oggetto di dispute legali e alimenta una vera e propria guerra tra i democristiani sopravvissuti alla Seconda Repubblica che nella Terza sono ancora in cerca di una identità. L’utilizzo dello scudo bianco con croce rossa accompagnato dalla scritta Libertas è contesissimo tra l’Udc di Lorenzo Cesa e la ‘Democrazia Cristiana Sicilia Nuova’ di Totò Cuffaro (la Dc Nuova’ dell’ex governatore siciliano, come viene chiamata, è una delle tante formazioni politiche che negli ultimi trent’anni si sono presentate come eredi del partito che aveva governato l’Italia dal dopoguerra fino a Tangentopoli). Proprio Cuffaro si era visto respingere dal Tribunale di Roma un ricorso: il giudice ha deciso che il diritto di utilizzare nelle competizioni elettorali lo scudocrociato resterà all’Unione di Centro che lo ha impiegato negli ultimi vent’anni.  

Nello stesso tempo, però, è in corso un’altra battaglia giudiziaria, ma solo sull’utilizzo del nome ‘Democrazia cristiana’, tra Gianfranco Rotondi e lo stesso Cuffaro. E’ stata fissata per il prossimo 13 gennaio la prima udienza del processo al logo democristiano presso il giudice Beatrice del tribunale di Avellino, a seguito della denuncia presentata dall’ex senatore Cuffaro contro la Dc di Rotondi, che utilizza il nome del partito da venti anni a suo giudizio senza titolo. A resistere è Rotondi appunto, che ha già incassato numerose sentenze, ultima anche a Roma, a favore del proprio diritto all’uso del nome. “Usiamo questo nome ininterrottamente da venti anni, abbiamo avuto gruppi parlamentari, gruppi consiglieri in Regioni e Comuni, e abbiamo avuto ragione in tanti giudizi promossi sulla falsariga di quello presentato da Cuffaro”, va ripetendo il parlamentare democristiano eletto alle ultime politiche tra le file di Fdi (quota centrista). (di Vittorio Amato, Antonio Atte e Franscesco Saita) 

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