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Le conseguenze della pandemia

Le leggi in vigore oggi sono state necessariamente approvate nel passato. Lo stesso vale per le sentenze dei tribunali. Nel pronunciare una sentenza, un tribunale risolve quasi sempre una controversia su eventi accaduti nel passato. Quattro anni fa (già!) eravamo tutti intrigati dalle notizie su un virus che si propagava rapidamente e che sollevava questioni con cui non avevamo alcuna familiarità. Ogni giorno che passava ci chiedevamo se fossimo al riparo dal fenomeno. Il resto lo conosciamo tutti. Ci siamo tutti rivolti ai media tradizionali, che hanno riportato sostanzialmente le stesse informazioni sul grado di pericolosità del virus, al quale è stato dato un nome che non ci era familiare: COVID-19. Pur tenendo conto che questi eventi sono ormai alle nostre spalle, c’è un elemento importante del nostro comportamento che non lo è.

 

Quando parliamo di eventi, o situazioni che sono accaduti durante l’intero periodo della pandemia, che si è ufficialmente conclusa il 5 maggio 2023, tendiamo a rivedere questi eventi come se si fossero verificati al di fuori di circostanze straordinarie. Così, nella vita di tutti i giorni, quando ripensiamo agli eventi passati, tendiamo ad omettere che sono accaduti in un periodo fuori dal comune. Anche se non dimenticheremo mai ciò che tutti abbiamo vissuto durante la pandemia, quando ripensiamo ai momenti di quel periodo lo facciamo alla luce di ciò che stiamo vivendo oggi. Questa difficoltà che abbiamo di ricostruire fedelmente il passato, così come le cose sono realmente accadute, costituisce un grosso problema nello svolgimento di un processo. Giudici, avvocati, testimoni sono tutti assorbiti dalle questioni quotidiane e tendono ad attenuare la portata di ciò che è stato vissuto in passato. Qui di seguito vi racconto una situazione reale, in cui il tribunale ha dovuto sforzarsi di ricostruire fedelmente la situazione come si è verificata durante la pandemia e poi ha dovuto giudicarne le conseguenze.

 

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In questa causa, la persona che ha sporto denuncia è una dipendente di un ristorante, dove ha lavorato per tredici anni come cameriera. A metà settembre 2021, nel mezzo della quarta ondata della pandemia di COVID-19, il datore di lavoro ha adottato una regola di vaccinazione obbligatoria che esigeva che i dipendenti fossero completamente vaccinati contro il COVID-19, entro e non oltre il 15 novembre 2021. La cameriera era inquieta per la conseguenze sconosciute dei vaccini e quindi ha deciso di non sottoporsi al siero. Non ha cercato di beneficiare di misure accomodanti che le consentissero di derogare alla politica, ma ha lasciato intendere che, a impedirle di vaccinarsi, erano dei motivi di salute. Il nuovo regolamento del datore di lavoro prevedeva che, se un dipendente si fosse rifiutato di vaccinarsi, avrebbe rischiato un congedo non retribuito. In altre parole, non avrebbe potuto lavorare finché non si fosse vaccinato, o fino a quando non fosse stato revocato l’obbligo di vaccinazione. La cameriera ha rifiutato di farsi vaccinare perché non sapeva se il vaccino fosse pericoloso o meno.

 

Nel bel mezzo della pandemia, e in seguito all’inizio della campagna di vaccinazione pubblica in Canada, il 4 ottobre 2021, la dipendente è stata messa in aspettativa non retribuita. Al processo, la dipendente ha dichiarato di essere stata vittima di dimissioni indotte (constructive dismissal/congédiement déguisé). In altre parole, pur non essendo stata formalmente licenziata, ha sostenuto che ciò che il datore di lavoro aveva fatto, impedendole di lavorare, equivaleva a un licenziamento.

 

Il tribunale ha dovuto quindi valutare la normativa del datore di lavoro relativa alla vaccinazione obbligatoria. Bisogna considerare le conoscenze che abbiamo oggi sul vaccino, o quelle dell’epoca? La corte ha concluso che la politica di vaccinazione obbligatoria era ragionevole, sulla base della conoscenza che il datore di lavoro aveva sul virus ALL’EPOCA in cui la politica era stata adottata e nel contesto dell’obbligo imposto dal governo al datore di lavoro di garantire la salute e la sicurezza dei suoi dipendenti, dei suoi clienti e dei membri del pubblico. La Corte ha concluso che il regolamento del datore di lavoro costituiva, quindi, una risposta ragionevole e legittima all’incertezza creata dalla pandemia da COVID-19. Per giungere a questa conclusione, il tribunale ha trovato un giusto equilibrio tra: 1) Gli evidenti interessi commerciali del datore di lavoro, volti a preservare le proprie attività e ad evitare di dover chiudere i battenti; 2) Gli obblighi del datore di lavoro di garantire la salute e la sicurezza dei propri dipendenti sul posto di lavoro; 3) La possibilità per la cameriera di rifiutare il vaccino fino alla fine della pandemia. Alla luce delle conoscenze disponibili all’epoca, la decisione del datore di lavoro di imporre alla dipendente un congedo non retribuito non ha costituito né una violazione del contratto di lavoro, né un licenziamento indotto.

 

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