Una valanga travolgente, un’onda inarrestabile, un ‘cappotto’ clamoroso. Gli americani hanno parlato, forte e chiaro, conferendo un mandato pieno, totale ed inappellabile a
Donald Trump: non soltanto la Casa Bianca, ma anche il Senato e molto probabilmente pure il Congresso (con la Corte Suprema che già pende a destra, dopo le nomine dello stesso Trump durante il primo mandato). Senza trascurare il voto popolare, da 20 anni un tabù per i repubblicani. Una vittoria netta e completa, certificata dal successo del tycoon in tutti i sette Swing States, gli Stati in bilico – Nevada, Arizona, Pennsylvania, Michigan, Wisconsin, North Carolina e Georgia – che alla vigilia erano stati identificati come ‘aghi della bilancia’ per determinare il destino della Casa Bianca. La scelta di Trump non è stato un capriccio o una ripicca, ma il segnale di un malessere profondo, radicato e diffuso. Basti pensare che il Presidente in pectore (entrerà in carica solo il prossimo 20 gennaio) ha ottenuto risultati migliori rispetto al 2020 in 48 dei 50 Stati del Paese. Anche negli Stati tradizionalmente democratici – come il New Jersey, la California (lo Stato di Harris) e l’Illinois (lo Stato di Obama) – è riuscito a ridurre notevolmente lo scarto dall’avversaria. Nemmeno le grandi città progressiste sono state risparmiate: Houston ha virato a destra di otto punti, Chicago di undici e la contea di Miami-Dade di 19. New York, la metropoli democratica per eccellenza, non ha fatto eccezione: Manhattan si è spostata a destra di nove punti, il Queens di 21 e il Bronx di 22. Non solo. Trump ha rosicchiato voti in quasi tutti i gruppi demografici (fatta eccezione per gli over 65 e le donne bianche laureate), così come tra le minoranze etniche (afro-americani, asiatici, ispanici e arabi). La fuga dei giovani, anche in chiave futura, rappresenta l’emorragia più allarmante: fra gli under 30, nel 2020 Biden aveva vinto di 25 punti e nel 2016 Hillary Clinton di 18, mentre Harris si è limitata a 6 (52 a 46), un risultato critico che può rimbombare per generazioni. Insomma, un terremoto non solo politico, ma anche identitario, quasi antropologico.
Gli americani hanno preferito premiare un miliardario populista, bersaglio di condanne penali, di impeachment e di tentativi di assassinio da parte di cittadini-giustizieri, dallo stile sgraziato e dai discorsi incendiari, piuttosto che affidarsi ad una candidata paracadutata dall’alto, espressione della nomenclatura e del “deep state”, che in quattro anni di vicepresidenza ha brillato per la sua inconsistenza, la sua mediocrità e la sua pochezza. Ma, soprattutto, i cittadini a stelle e strisce – non soltanto i ceti meno abbienti e con bassa scolarizzazione delle zone rurali e dei sobborghi, ma anche molti elettori che quattro anni fa hanno votato per Biden – hanno detto “BASTA” ad un’America sull’orlo di un precipizio ideologico ormai insopportabile. Votando contro le élite e la loro fastidiosa superiorità morale, contro la velenosa spocchia delle star di Hollywood (odiosa la loro promessa di lasciare il Paese!), contro l’intramontabile spauracchio del fascismo, contro l’immigrazione illegale incontrollata, contro l’inaccettabile dittatura delle minoranze, contro l’ideologia woke, il pensiero unico, il politically correct e la cancel culture; contro l’ambiguità di genere, contro l’ossessione climatica, contro la tolleranza della propaganda terroristica nei campus universitari.
È stata una vittoria contro una narrazione distorta e ambigua della realtà, lontana anni luce da quella vissuta ogni giorno dalla classe media. Trump ha saputo dare risposte pragmatiche e realistiche alle priorità della gente, in primis su economia, immigrazione e sicurezza. L’agenda democratica, invece, incentrata su temi legittimi e significativi, ma non altrettanto impellenti e incalzanti (come l’aborto, le regole democratiche e i cambiamenti climatici), si è dimostrata non soltanto inadeguata, ma addirittura presuntuosa. Determinando una deblacle storica. A furia di inseguire minoranze e temi minoritari, i Dem sono diventati a loro volta una minoranza nel paese e nelle istituzioni. Nella vita di tutti i giorni, la gente pensa alle tasse e allo stipendio, alla scuola e agli ospedali. La gente si sveglia la mattina, prende i mezzi pubblici, lavora, va al supermercato, prepara la cena, si addormenta sul divano. Possibilmente senza il timore di avere degli intrusi in casa. Ragiona sulle bollette, sulle imposte, sulle spese familiari e punta ad arrivare a fine mese senza l’acqua alla gola. E quando va alle urne, non pensa ai massimi sistemi, ma premia chi promette di semplificare la vita e di lasciare qualche dollaro in più in tasca. Oggi, negli Usa, la più piccola confezione di uova costa in media 2,72 dollari; quattro anni fa erano 1,55 dollari. L’inflazione colpisce tutti, bianchi e minoranze, donne e uomini, giovani ed anziani. Come ‘a livella’ di Totò, non fa distinzioni. Nelle città come nelle aree rurali, il costo della vita ha innescato la protesta che ha consentito a Trump di imporsi nel voto popolare, modificando il volto (non solo politico) del Paese.
Trump ha vinto perché la sinistra ha abbandonato i lavoratori. Oggi avremmo potuto celebrare la prima donna (e afro-indo-americana) Presidente degli Stati Uniti, se i Democratici non avessero fatto di tutto per resuscitare Trump, proponendo un programma elettorale ideologizzato e disconnesso dalla realtà quotidiana della stragrande maggioranza dei cittadini americani.