“Oriente-Occidente: fratelli nemici?”. La conferenza di Federico Rampini all’IIC di Montréal
MONTRÉAL – Linguaggio fluido, stile sobrio e asciutto, profondità di pensiero, argomentazioni logiche: sono i tratti caratterizzanti di Federico Rampini, giornalista, saggista e scrittore italiano tra i più autorevoli e influenti in attività, oggi corrispondente USA per il Corriere della Sera, dal 2009 accreditato presso la Casa Bianca. Un fine osservatore, oltre che abile divulgatore, delle vicende a stelle & strisce, capace di interpretare gli umori della pancia del Paese, ma anche di spiegare, con spirito critico, le sfide della democrazia più antica al mondo in uno scacchiere geopolitico internazionale sempre più incerto. Circa 100 persone hanno partecipato alla sua conferenza, dal titolo “Oriente-Occidente: fratelli nemici?”, che si è tenuta lunedì 3 aprile all’Istituto Italiano di Cultura di Montréal. Il CITTADINO lo ha incontrato il giorno prima.
Partiamo dal suo linguaggio fluido e semplice. È anche questo il segreto del suo successo?
“Il mio modello è Ernest Hemingway, grande scrittore americano che all’inizio ha fatto il giornalista. Lo stile di Hemingway rimane insuperabile proprio per la semplicità, che lui considerava una conquista. È leggendario il fatto che quando lui buttava giù un pezzo, diceva sempre che il lavoro principale non consiste nello scrivere, ma nel togliere tutto ciò che è inutile. Sono diverso dalla tradizione italiana, dove l’orpello e la retorica di solito sono apprezzati: io lavoro sulla sobrietà, sull’asciuttezza dello stile”.
È il 2023: come sta il mondo?
“In apparenza il mondo sta sempre malissimo, io però cerco di non farmi contagiare dalla moda dell’apocalisse. Un anno fa, quando l’Occidente stava cominciando ad applicare le sanzioni economiche contro la Russia, in alcuni Paesi, sicuramente in Italia, dominava una narrazione catastrofista. Praticamente nessuna di queste profezie di sventura si è realizzata. Anzi, il 2022 è stato un anno ottimo per l’economia italiana: quello che abbiamo perso in Russia, lo abbiamo riguadagnato con le esportazioni negli Usa e in Canada. L’allarmismo piace ai media, che spesso non ci azzeccano”.
Si va verso un mondo multipolare con due grandi centri d’influenza, Stati Uniti e Cina?
“Il mondo è sempre stato abbastanza multipolare, anche se dopo la caduta del Muro di Berlino si è parlato di un momento unipolare. Ma non è mai stato esattamente così: gli Stati Uniti non sono mai stati in grado di dettare legge nel mondo intero. Nella tendenza all’emergere di superpotenze rivali, la Cina è la più importante di tutte e aspira esplicitamente a costruire un ordine alternativo a quello dell’occidente. Poi però ci sono tante sotto-potenze imperiali, con una sfera d’azione regionale, che spesso sono gli eredi di grandi imperi del passato: la Turchia e l’impero ottomano, l’Iran e l’Impero persiano, l’impero arabo, l’India a modo suo. È un mondo dove si scontrano tanti attori: in questo può apparire molto disordinato, ma è il modo in cui dobbiamo abituarci a vivere”.
Come finirà il conflitto tra Russia e Ucraina?
“La narrazione di Putin sull’accerchiamento è un falso storico. Intanto perché la Nato non è un’alleanza aggressiva; semmai la Nato, dopo la dissoluzione del blocco sovietico, è stata obbligata ad accogliere al suo interno Paesi che si sentivano minacciati dall’espansionismo russo. Putin, del resto, fino al 2007 stava benissimo in un’Europa con una Nato che arrivava a lambire le sue frontiere. Poi ha cambiato narrazione per motivi interni ed ha cominciato ad abbracciare un’ideologia paranoica. Non so come finirà la guerra, c’è un grande dibattito anche negli USA sul cosiddetto “end-game”, dove cioè vogliamo andare a chiudere, visto che il conflitto che dura in eterno è un costo enorme. Si è discusso molto dello scenario coreano, congelare il conflitto senza pretendere di risolverlo: è la situazione che si definì nel 1953 tra le due Coree. Forse ci arriveremo, ma bisogna capire con quali confini, perché non si può imporre all’Ucraina una soluzione che sia inaccettabile in termini di perdita di territorio”.
Dal 2009 è accreditato alla Casa Bianca, seguendo da vicino Obama, Trump e Biden. Come sta l’America?
“L’America sembra essere sempre in uno stato comatoso. Da bambino, negli anni della guerra del Vietnam, sentivo parlare sempre di un’America in crisi. Tutto ciò che sento dire oggi su un’America profondamente malata non mi stupisce: la sua condizione è quella di una grande democrazia caotica e sgangherata, che offre sempre uno spettacolo indecoroso di sé stessa, poi però ce la fa sempre. La democrazia americana esiste dal 1787, 2 anni prima della Rivoluzione Francese, ed è ancora quella. Nessun altro Paese al mondo può dire di avere un sistema politico così stabile, nonostante la sua instabilità intrinseca. Detto questo, ci sono tante cose che mi preoccupano dell’America: il processo a Trump non mi sembra una bella pagina della storia americana”.
Come viene percepito negli Usa il governo Meloni?
“Anche negli Usa c’è stato un pregiudizio contro Giorgia Meloni, soprattutto all’inizio, tenuto conto del fatto che quelli che noi chiamiamo mainstream media negli Usa – New York Times, Washington Post e CNN – sono prevalentemente collocati a sinistra. Giorgia Meloni è riuscita però a conquistarsi una credibilità negli Usa soprattutto con le sue scelte di politica estera, la fedeltà alla linea della Nato sulla guerra in Ucraina ed i buoni rapporti con l’Unione Europea”.
Come viene visto il Canada in Italia e negli Stati Uniti? Per molti è un Paese-vassallo/satellite degli Usa…
“Io credo che anche gli italiani più informati e lucidi vedono il Canada come una versione più gentile degli Usa, con molte affinità ma senza alcuni dei problemi che rendono gli Stati Uniti così indigesti per un europeo. Mi riferisco per esempio alla diffusione delle armi da fuoco ed alla questione della sanità pubblica, che è molto più simile al modello europeo. Il Canada è visto come un’America più gentile e più civile. Inoltre, chi conosce la storia del Canada sa che c’è sempre stata una politica estera molto più autonoma dagli Stati Uniti. Basti pensare che fino a qualche anno fa, se volevo andare a Cuba dagli Usa, andavo in Canada e potevo volare a Cuba. Anche gli americani vedono il Canada come la versione “socialista” del modello statunitense”.
Infine, quanto la velocità del digitale può influenzare il pensiero critico dei giornalisti?
“È un tema gigantesco. Io vivo nel cuore della cosiddetta ‘woke culture’, New York è uno dei templi del ‘politically correct’. Da giovane sono stato iscritto al Partito Comunista e oggi certi media americani mi ricordano gli aspetti peggiori della storia del comunismo, cioè il totalitarismo delle menti, l’indottrinamento ideologico: è un fenomeno preoccupante, soprattutto per la presa che ha nelle Università. Poi c’è il problema dell’intelligenza artificiale. Mi sto occupando del fenomeno di ChatGPT e ChatBot, dove tra l’altro s’intrufola di soppiatto la ‘woke culture’. Abbiamo fatto dei giochi con ChatGPT e si vede benissimo qual è l’ideologia di chi ha programmato questi cervelli artificiali”.